25 agosto 2008
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Duttile e fermo ma capace di parlare alla gente
di Gianpaolo Romanato
Quando Albino Luciani fu eletto Papa, nel tardo pomeriggio del 26 agosto 1978, molti commentatori furono colpiti dalle analogie con la figura del suo predecessore Giuseppe Sarto, che divenne Pio x il 4 agosto del 1903.
Entrambi erano veneti, parlavano abitualmente il dialetto e avevano origini molto modeste. Entrambi erano personaggi defilati, erano arrivati al pontificato dopo un conclave di piena estate, avvenuto nello stesso mese, a conclusione di una carriera che si era svolta interamente nel Veneto, coronata dal patriarcato veneziano. E ancora: tutti e due erano prossimi alla settantina - Luciani aveva sessantasei anni, Sarto sessantotto - e avevano occupato la sede di San Marco per nove anni - il primo dal 1894 al 1903, il secondo dal 1969 al 1978. Ad accomunare le due figure c'erano altre coincidenze, meno casuali: la sensibilità catechistica, l'attenzione per la povera gente e per i problemi sociali, il fastidio per la pompa ecclesiastica e la preferenza per forme più semplici, la comunicativa diretta e spontanea. Pensando a queste somiglianze ci si chiese perciò se il papato di Giovanni Paolo I avrebbe avuto la stessa forza riformatrice di quello del suo predecessore di inizio secolo, che in un decennio aveva cambiato tutta l'organizzazione della Chiesa, allora ancora ferma alle strutture del potere temporale.
L'interrogativo, come ben sappiamo, è rimasto senza risposta per la morte repentina di Luciani, avvenuta un mese dopo l'elezione. Non sapremo mai che strada avrebbe preso il suo governo della Chiesa. Il nodo era la recezione del Concilio Vaticano ii, dopo il lungo governo di Paolo vi, che nella seconda parte del pontificato aveva mostrato crescenti preoccupazioni per le derive della contestazione intraecclesiale. Preoccupazioni espresse in forme talora cupe e drammatiche.
Nella sofferta omelia del 29 giugno 1972, disse che "da qualche fessura" era "entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio". Non ci si fida più della Chiesa - aveva aggiunto il Papa - ed è entrato il dubbio nelle nostre coscienze.
E ancora, secondo il resoconto disponibile di quel discorso pubblicato nella raccolta degli Insegnamenti di Paolo vi: "Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. Predichiamo l'ecumenismo e ci distacchiamo sempre di più dagli altri. Cerchiamo di scavare abissi invece di colmarli".
Albino Luciani aveva vissuto la stagione postconciliare prima nella sede di Vittorio Veneto (dove fu vescovo dal 1958 al 1969) e poi in quella patriarcale di Venezia, alla quale fu chiamato proprio da Paolo vi, che in ripetute occasioni mostrò una predilezione nei suoi confronti talmente esplicita da sembrare quasi un auspicio di successione, come nell'occasione in cui, il 16 settembre 1972, durante la visita nella città lagunare, gli pose sulle spalle la propria stola. In entrambe le diocesi diede prova di apertura al nuovo, di lungimiranza, di una sensibilità pastorale non priva di audacia innovativa. È noto che sul tema del controllo delle nascite aveva auspicato una posizione meno negativa e più possibilista. A Vittorio Veneto non esitò a farsi carico nei confronti dei creditori - pur non essendone tenuto - dei debiti accumulati da due sacerdoti coinvolti in fallimentari operazioni finanziarie. Era, insomma, un presule di larghe vedute, di rigorosa e intelligente sensibilità morale, tutt'altro che rinserrato in una visione difensiva delle prerogative ecclesiastiche.
Prima dell'episcopato aveva insegnato a lungo nel seminario di Belluno, facendo propria una cultura ampia ed eclettica, sebbene di impianto prevalentemente manualistico. Ma era persona di continue letture, dalle quali sapeva trarre riflessioni personali, spunti di omiletica, stimoli per interventi giornalistici. Gli articoli che prese a pubblicare durante il patriarcato sul quotidiano della città "Il Gazzettino" e sul "Messaggero di sant'Antonio" - poi raccolti sotto il titolo di Illustrissimi. Lettere del Patriarca (Padova, 1976) - testimoniano una sensibilità priva di ristrettezze, finalizzata non a interessi eruditi ma a un'acuta sensibilità per la condizione umana. È significativo che questa attenzione per il libro fosse presente in Luciani fin dagli anni giovanili, per nulla frustrata dalle modestissime condizioni familiari (suo padre era un muratore, costretto a cercare lavoro stagionale in Svizzera). Lo storico veneziano Giuseppe Gullino ha ritrovato recentemente nella ben fornita biblioteca parrocchiale di Canale d'Agordo, il paese natale del futuro Papa, un suo quaderno manoscritto contenente la catalogazione dei volumi della biblioteca stessa ed essenziali note di commento, che l'allora seminarista Luciani vergava dopo insonni letture in ogni direzione, comprese le opere di illuministi francesi settecenteschi. A incoraggiare il giovane chierico su questa strada e a orientare pastoralmente questa sua passione intellettuale, ma non da intellettuale accademico - si ricordino soprattutto le udienze generali del 6 e del 27 settembre 1978, condotte in dialogo con i fedeli presenti - fu il parroco di Canale, don Filippo Carli.
Luciani crebbe in questo ambiente di periferia, maturando una sensibilità attenta alle condizioni concrete dell'uomo, una visione di Chiesa orientata al suo rapporto con i fedeli più che ai grandi problemi del governo ecclesiastico. Anche quest'attitudine richiama il suo predecessore Pio x. Come lo richiamano la spiritualità intensa, il senso di Dio, la coscienza del dovere da compiere in ogni momento della vita. Qualche studioso non ha saputo trattenere lo stupore per l'elevazione alla tiara di una figura così semplice, lineare. Ma il vescovo di Belluno e poi di Padova Girolamo Bortignon, sotto la cui protezione Luciani iniziò la sua ascesa, dopo la seconda guerra mondiale, non si è mai stancato di ripetere che, se non era un raffinato intellettuale, se non era uno scaltro uomo di governo, era però una figura dalla vita santa e intemerata. Ciò che bastava a renderlo degno del pontificato romano.
Ma a Venezia, negli stessi anni in cui Paolo vi esprimeva i propri timori sul futuro della Chiesa universale, Luciani seppe dare prova di fermezza e, all'occorrenza, anche di durezza. La diocesi era inquieta, percorsa da fremiti di rinnovamento che già avevano preoccupato non poco il suo predecessore Giovanni Urbani. Il patriarca non esitò a togliere l'assistente ecclesiastico alla Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana, e a sciogliere il centro universitario del patriarcato quando i giovani si espressero a favore del mantenimento della legislazione divorzista in occasione del referendum popolare del 1974. In campo sociale fu molto attento ai problemi del polo operaio di Marghera e incoraggiò la pastorale del lavoro, ma non concesse alcuno spazio all'esperienza dei preti operai, che sull'esempio francese contavano in laguna un nucleo piuttosto consistente. Cercò insomma di non confondere mai il sacro e il profano, di non esporre la Chiesa e il clero su fronti che avrebbero potuto essere rischiosi e incontrollabili. Dal punto di vista teologico ed ecclesiale parlò con dolore del "complesso antiromano" di molte frange della teologia del tempo.
La sua fedeltà all'istituzione, in quegli anni difficili, non conobbe mai alcuna incrinatura, mentre alcuni viaggi internazionali ne allargavano l'esperienza e la sensibilità missionaria rispetto all'orizzonte limitato della sua formazione, facendolo conoscere e apprezzare dai cardinali non italiani.
Fu questa, verosimilmente, la ragione per cui il collegio cardinalizio, nel conclave che iniziò il 25 agosto 1978, scelse Albino Luciani come successore di Paolo vi. Sappiamo che fu eletto al quarto scrutinio, con una crescita dei consensi che - stando ad alcune testimonianze, peraltro non controllabili - già al terzo l'avrebbe portato a sfiorare il quorum, alla fine largamente superato, forse con oltre cento voti: quasi un plebiscito, considerando che i votanti erano 111. A eleggerlo fu lo stesso collegio che un mese più tardi sceglierà l'arcivescovo metropolita di Cracovia, Karol Wojtyla, formato in gran parte da cardinali creati da Paolo vi, largamente internazionalizzato e composto da figure di grandissimo spessore. Si tratta di un'annotazione tutt'altro che marginale, dato che non sono mancati fra storici e osservatori, dopo l'elezione del Patriarca di Venezia e anche dopo la sua morte, commenti perplessi, addirittura stupiti per quella scelta. Luciani aveva un carattere morbido e duttile, ma nessuno tuttavia dubitava della sua fermezza sui principi, della sua determinazione a seguire l'indirizzo voluto dal Vaticano ii, non in forme radicali, ma nella continuità con il passato.
Il suo discorso programmatico confermò un progetto di governo sostanzialmente mediano fra le opposte tendenze del momento, con molti riferimenti espliciti allo spirito montiniano, nell'attenzione "a che una spinta, generosa forse ma improvvida, non ne travisi i contenuti e i significati", nello sforzo di "continuare" l'impegno ecumenico "senza cedimenti dottrinali ma anche senza esitazioni". La concezione del ruolo papale sarebbe stata probabilmente più umile di quella dei suoi due predecessori, dei quali assunse congiuntamente il nome, introducendo un'innovazione che era di per sé una linea programmatica, ma non meno ferma nel proporre la funzione internazionale della Santa Sede come guida e punto di riferimento per i popoli di ogni continente, al di sopra delle nazioni e delle divisioni politiche. Nei pochi giorni che gli furono concessi fece in tempo a confermare questi intendimenti ricevendo il metropolita ortodosso di Leningrado - che sarà stroncato da un infarto proprio mentre si trovava al cospetto del Papa - manifestando il desiderio di recarsi in Libano per contribuire alla pacificazione di quel paese e incoraggiando un'intesa fra Argentina e Cile per il superamento delle divergenze di frontiera fra i due governi. Poi, nella notte fra il 28 e il 29 settembre, l'improvvisa morte. Una morte che aprì la strada a una vera rivoluzione: l'accesso al pontificato romano, dopo quasi mezzo millennio, di un vescovo non italiano.
(©L'Osservatore Romano - 25-26 agosto 2008)
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