9 dicembre 2007
"Spe salvi", "La poesia della speranza": i commenti di Luca Doninelli e Roberto Mussapi
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LA POESIA DELLA SPERANZA
Doninelli: «L’io non si attenua, ma si realizza nella sua pienezza»
DI LUCA DONINELLI
La nuova lettera enciclica Spe salvi di Papa Benedetto XVI è così eloquente, così persuasiva e perciò avvincente, così bella di una bellezza che riluce dal suo interno, da dentro le parole e le frasi, ma che sta prima di tutte le parole, che il solo esercizio degno dovrebbe essere quello di leggerla e rileggerla.
C’è in essa – se posso permettermi – un gusto del vivere dove l’intelligenza e la forza argomentativa attingono a un’evidenza che ha già cominciato a mostrarsi nell’esperienza umana, qui e ora, e che attesta nella realtà quello che il genio di Platone riuscì a intuire, quando mise in bocca a Socrate morente (ma quella era solo letteratura) le famose parole: «Ricorda, Critone: dobbiamo un gallo a Esculapio ». Come si potrebbe, del resto, parlare della speranza se il suo contenuto non avesse già cominciato a manifestarsi?
Saremmo dei pazzi, o al più dei visionari.
La lettera del Papa contiene diversi giudizi e un’acuta analisi circa le trasformazioni che l’idea di speranza ha subìto, specialmente nell’epoca moderna.
Che cos’è la speranza? Un amico sacerdote me l’ha riassunta così: la speranza è il sentimento che domina l’animo del centurione evangelico dal momento in cui ha lasciato Gesù (che gli aveva garantito la guarigione del servo malato) fino al momento in cui, entrato nel suo alloggio, non constata l’avvenuta guarigione. Mentre se ne andava solo per la strada, quel centurione era forse dubbioso? Diceva tra sé: «Chissà se sarà vero»? No. Noi lo vediamo camminare pieno di gioiosa fiducia, certo che Gesù ha compiuto ciò che aveva detto. Quel centurione aveva tutte le ragioni per credere che il miracolo era stato compiuto. E perché aveva queste ragioni? Perché incontrando Cristo aveva incontrato sé stesso fino in fondo, fino a quel fondo in cui 'io' non è più 'io', ma un 'tu', una compagnia. Ecco perché quel centurione, mentre se ne andava solo, in realtà sapeva di non essere solo.
Sapeva che non sarebbe stato mai più solo. Ecco perché era fiducioso nella guarigione del servo: perché il primo miracolo, il più grande, Gesù l’aveva già fatto a lui.
Tutta la Spe salvi è piena di questa stessa fiducia, e la comunica a noi con semplicità e profondità. Benedetto XVI conosce molto bene la modernità, che ha ridotto l’idea di salvezza a qualcosa di individuale, ossia di intimistico, di privato. A qualcosa che non opera nella realtà. Ma noi ci salveremo insieme. In questa affermazione non c’è nessun comunitarismo, nessuna idea collettivista. C’è, invece, il senso del legame tra l’uomo e Dio. Ciò che l’uomo, nei secoli, ha rappresentato attraverso immagini, in realtà è un grido del cuore che non ha immagini.
È un balbettio, un 'gemito inesprimibile', con il quale noi esprimiamo il desiderio di vivere eternamente, ma non secondo l’immagine di vita eterna che possiamo costruirci da soli. È qualcos’altro, qualcosa di cui possiamo dire solo che è altro, altro da tutto. Questo altro, che è Dio stesso, si è fatto conoscere, è diventato un uomo registrato all’anagrafe, cresciuto a Nazareth e vissuto negli ultimi tre anni della sua vita tra Cafarnao e Gerusalemme. Lui ha reso più limpida la natura del nostro grido – che è, appunto, nostro, come nostro è il Padre: 'nostro' perché attiene alla verità ultima di ciascun uomo.
Individualismo e intimismo nascono da una spersonalizzazione di cui l’uomo è stato fatto oggetto nell’età moderna. Per capire il noi della speranza (con gli esempi enormi che la storia ci dà, dai martiri alle rinunce di tanti santi, come Francesco d’Assisi) non dobbiamo pensare a un’attenuazione dell’io, ma alla sua pienezza: è nella pienezza dell’io che si rivela più apertamente la sua dipendenza. Nell’idea di una salvezza comune non c’è, dunque, alcun comunitarismo: c’è la certezza semplice del centurione, che cammina, nella sera, in una terra straniera, ma felice perché sa di non essere mai più solo, e sa che questo è vero per tutti, per sempre.
© Copyright Avvenire, 8 dicembre 2007
Mussapi: «Attraverso il buio l’arte narra la luce che verrà»
DI ROBERTO MUSSAPI
«La mia pena è durare oltre quest’attimo ». Con questo verso memorabile si conclude una delle più grandi poesie del Novecento e non solo, Aprile-Amore di Mario Luzi. Si conclude la composizione, ma non il tempo a cui essa ha dato inizio: la poesia, come è stato detto, ha inizio nell’attimo in cui la sua lettura è ultimata. L’attimo di compresenza con l’assoluto (concesso a Dante al culmine del suo viaggio, raccontato magnificamente da Benigni in televisione l’altra sera) è una pienezza che fa desiderare il non ritorno, secondo la logica. Ma, come nel verso di Luzi, quella pena trabocca di beatitudine perdurante, comprendiamo che un’altra realtà, altra ma prossima, si è svelata, e da quel momento la certezza della sua esistenza non ci mollerà più. È questa forse la speranza, che non nasce da un puro desiderio (senza il quale comunque non sarebbe concepibile) ma dal suo fugace, attimico appagamento: qualcosa di un tutto ulteriore e benefico è stato appercepito, e, se pure subito svanito, ora sappiamo che il tutto a cui appartiene esiste.
La speranza, sembra dire l’enciclica di Benedetto XVI, (sembra all’incompetente di teologia quale chi scrive queste righe), non solo una aspettativa, ma l’attesa di qualcosa che ha già dato prova di esistere. La fede, inscindibile dalla speranza, non è desiderio folle, ma visione di qualcosa che può sfuggire ma può anche essere colto, nell’attimo. Speranza quindi è aspettativa di qualcosa che ha già dato prova di sé.
La poesia è forse la disciplina e l’arte in cui questo concetto di speranza si manifesta nella sua natura drammatica: il 'naufragar' di Leopardi nell’infinito notturno non è desolato, come non lo è l’abbandono di Ugo Foscolo al crepuscolo, che, anticipando la sera, lenisce le pene del tempo quotidiano. «Dorme lo spirto guerrier ch’entro mi rugge» è un verso che non indica una resa o un’evasione, ma un’iniziazione, traverso il buio, al nuovo giorno, un fondamento di speranza.
Non a caso Benedetto XVI inscena storicamente la nascita della speranza, in un mondo dominato da una Roma in cui gli dei greci, peraltro mai forieri di speranza ultraterrena, sono sviliti a maschere, la religione ufficiale dell’imperatore non è credibile, solo i grandi poeti cercano altre vie, Lucrezio nella Natura atomistica, Ovidio in miti orientali di metamorfosi, miti metafisici, Virgilio in un presentimento intriso di compassione. La parola speranza si fa strada ma si fa anche realtà, riempie un vuoto reale. La speranza quindi non è una pia illusione, ma una realtà impalpabile quanto fondata. Una sorta di fortuna che però è anche giusta, equanime e non capricciosa.
In poesia, nella grande letteratura, la speranza appare spesso in altra veste, o con uno pseudonimo, poiché molte volte si manifesta in forma di resistenza. Prima ancora di sperare il poeta resiste: ma la sua resistenza è conseguenza di un’acquisizione avvenuta, se pur per vie non logiche ma più potenti, intuitive: Dylan Thomas conclude una poesia leggendaria con il verso « And death shall have no dominion»: 'E la morte non avrà dominio'.
La speranza non può ridursi a desiderio di sopravvivenza in una forma nota, destinato a frustrazione dolorosa: ma a persistenza, o rigenerazione, in una forma modificata e ignota. La speranza forse è soprattutto non avere paura di questo avvenimento ignoto, fidarsi della sua promessa, della sua prova.
© Copyright Avvenire, 8 dicembre 2007
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