7 dicembre 2007

"Spe salvi", Giuliano Ferrara per Panorama: "La salvezza non è la salute"


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Ferrara: La salvezza non è la salute

di Giuliano Ferrara

Sperare: che cosa significa? Significa pensare o credere, aver fede se si abbia fede, che la vita può essere salvata. In che senso salvata? Parlando di Christian Barnard, i tg dicono: la tecnica dei trapianti ha salvato molte vite. Dovrebbero essere più precisi: ha prolungato molte vite. La biotecnologia promette pezzi di ricambio per il corpo umano: altri prolungamenti, altre protesi utili a un rinvio più o meno lungo. Il biologo Edoardo Boncinelli ha scritto un libro sull’immortalità, promettendo a stretto giro di posta vite ultracentenarie. Ma sempre di rinvio si tratta. E dopo? La salute e la salvezza sono due cose diverse.
Benedetto XVI ha proposto con la sua lettera enciclica una questione semplice, che il cittadino laico dovrebbe apprezzare per la sua radicalità e significatività: sei libero, dunque puoi vivere senza speranza, togliere il «plusvalore del cielo» dall’orizzonte della tua vita. Poi ne ha posta un’altra, altrettanto semplice: sei libero, dunque puoi vivere con la speranza, puoi usare la ragione per definire e usare per te e per gli altri quella strana cosa che ti divide dagli altri animali, il senso dell’infinito, l’inuizione che la natura non si giustifica da sola, e men che meno da sola si giustifica la storia.
Al fondo della faccenda c’è in entrambi i casi la libertà dell’uomo, il suo potere di scegliere, di sottoporsi inginocchiato a un giudizio finale o di mantenere la schiena dritta escludendolo. Per la chiesa l’amore di Dio è fedele e riguarda tutti, ma ciascuno è libero di corrispondere o no a questa fedeltà.
Se ti privi della fede, che è un caso della ragione in cui si danno come provate le cose che non si vedono, e si radica la sostanza di quelle che si sperano, ti consideri liberamente una particella della natura, un semplice segmento di un tempo la cui misura non ti eccede, né all’origine né al compimento del destino terreno. Punto. Questo appello all’esercizio della libertà, pro o contro la speranza, risulta paradossalmente provocatorio, quasi un affronto, a un pensiero dominante, che è poi la religione dell’immanenza, che considera impossibile la scelta, la libertà di segliere, in quanto consegna all’oscurità la pretesa del giudizio, l’idea stessa di speranza e di fede bollata come oscurantista, come un’obbedienza coatta invece che un gesto libero del cuore e della mente.
Ma che parte gioca nella storia l’uomo senza redenzione? Questo è il quesito storico posto dal Papa, mentre piega flessibilmente la sua funzione apostolica alle esigenze di lettura della vicenda umana, temporale, terrena. Per un buddista o un islamico tale domanda non avrebbe senso, per un cristiano, per la fede nell’incarnazione del divino, sì. E’ questo che fa la differenza. E la differenza ulteriore la fa la risposta. L’uomo senza redenzione, invenzione moderna, ritorno al paganesimo senza nemmeno gli interdetti mitici dell’antico politeismo, si organizza male il suo mondo, trasferisce in terra con il comunismo, con la razza, con lo stato totalitario, con l’eugenetica quel paradiso, quella speranza, quella fede che ha rigettato come dono del cielo.

Nessuno l’ha notato, ma in questo passaggio, che deriva al Papa da una lettura provvidenziale ma non sprovveduta della storia, coincide alla lettera con quello di un pensatore liberale come Karl R. Popper, critico radicale del progetto totalitario in nome di una ricerca senza fine, affidata al dubbio, alla congettura confutabile, alla filosofia della scienza, tutte cose che non hanno niente a che vedere con fede e teologia.

Il Papa che «va contro il mondo moderno», come recita la pigra vulgata dei suoi critici laicisti, in realtà offre una diagnosi antitotalitaria, in cui l’amore totale affidato ai fini ultimi e alle cose ultime batte in breccia la soffocante cura totale degli uomini predicata dalle ideologie immanentiste e mortifere del Novecento. Ben scavato, vecchia talpa.

© Copyright Panorama n. 50/2007

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