14 agosto 2008

Il Papa e la preghiera, quel fiducioso antidoto all'impotenza ed alla rassegnazione (Sequeri)


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IL PAPA E LA PREGHIERA

QUEL FIDUCIOSO ANTIDOTO ALL’IMPOTENZA

PIERANGELO SEQUERI

Un Papa non ha in mano le sorti del mondo.
Eppure, quando lo senti dire – come ieri mattina durante l’u­dienza generale a Castel Gandolfo – «...pregando pongo nelle mani del Si­gnore con fiducia il ministero che Lui stesso mi ha affidato, insieme alle sor­ti dell’intera comunità ecclesiale e ci­vile », percepisci un’intonazione spe­ciale dell’esclusivo ministero di Pie­tro, che gli è proprio. Qualcosa che po­trebbe toccare l’immaginazione ec­clesiale, e anche quella civile, a pro­posito delle urgenze del momento presente.

Un Papa che dice di sapere bene che questo è « il primo servizio » che può rendere alla Chiesa e all’umanità, con­ferisce un senso forte e concreto al 'primato' della preghiera che – a pa­role – nessun credente mette in dub­bio. Ma interpreta in modo rigorosa­mente cristiano anche il ' prima­to' del singolare ministero che gli compete.

La pre­ghiera non è che l’altra faccia della fede, il fiducioso abbandono che alimenta la spe­ranza nella cu­stodia di Dio. Il Papa, che è il pri­mo dei servi del Signore, è anche l’ultimo a pensa­re che il ministe­ro ecclesiale pos­sa essere inteso come un esercizio di potenza: che dispone il mondo mi­gliore, governa la società perfetta, sot­trae la Chiesa alle prove della storia. L’abitudine dei molti – credenti e an­che, più spesso di quanto si creda, non credenti – di chiedere agli uomini di Dio che li ricordino nelle loro preghie­re dovrà forse essere rivalutata. Essa interpreta il ministero ecclesiale, per la comunità dei credenti e per l’intera città dell’uomo, più profondamente di quanto forse non apprezziamo.

L’ammissione del fatto che la storia, in­dividuale e collettiva, è continuamen­te esposta a dure battute d’arresto, che si impongono anche allo slancio più creativo e alla dedizione più generosa, è lucidità propria della fede autentica. È proprio questa confessione che vie­ne quotidianamente anticipata nella preghiera: per noi e per i molti che si affidano a noi. È l’esatto contrario del­la rassegnazione all’impotenza.

Al con­trario, è il grembo di un abbandono dal quale si sprigiona la suprema chiarez­za di una testimonianza che è capace di togliere la scena all’arroganza delle potenze del nulla. Fino all’ultimo atto.

Benedetto XVI ieri ha ricordato la te­stimonianza di Edith Stein e di Massi­milano Kolbe, martiri ad Auschwitz. O­gni volta che il silenzio e la musica del­la preghiera – possente e corale, strug­gente e intima – si leva ad avvolgere la comunità degli umani, i delusi e gli av­viliti della terra drizzano le orecchie. La preghiera degli uomini e delle don­ne di Dio custodisce la speranza per tutti gli ostaggi del nichilismo di que­sto passaggio d’epoca. Nello squarcio del velo del sacro, che illumina l’evan­gelo, gli uomini e le donne che servo­no Dio in spirito e verità non pregano per i santi, ma per tutti noi peccatori. Non pregano perché stanno bene e so­no riveriti da tutti, lo fanno anche quando sono feriti a morte e avviliti da molti. Non pregano solo per sé, ma per essere pronti a offrirsi in sostitu­zione. E se non ci è ancora morta l’a­nima, incalzati come siamo ad accet­tare come selezione della specie la di­sperazione dei molti che si erano fi­dati di noi, lo dobbiamo al fatto che – nemmeno da morti – gli autentici mi­nistri del vangelo ci hanno escluso dal­la loro preghiera. Non avete nulla da insegnare, signori del tempo e del nul­la, alla preghiera.

© Copyright Avvenire, 14 agosto 2008

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