17 novembre 2007
Domani a Novara la Beatificazione di Rosmini. Lo storico Giovagnoli: come Benedetto XVI seppe dialogare con i mondi più lontani dalla Chiesa
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Domani a Novara la Beatificazione di Rosmini. Lo storico Giovagnoli: come Benedetto XVI seppe dialogare con i mondi più lontani dalla Chiesa
“Una delle cinque o sei più grandi intelligenze che l’umanità abbia prodotto a distanza di secoli”: così, Alessandro Manzoni definiva Antonio Rosmini figura fondamentale del cattolicesimo dell’Ottocento che, domani a Novara, verrà elevato all'onore degli altari. Sacerdote di profonda spiritualità, filosofo, teorico della politica e scrittore prolifico, Rosmini fu un anticipatore lungimirante per la vita della Chiesa. Impegnato nel “condurre gli uomini alla religione mediante la ragione”, fu anche un fulgido esempio di obbedienza alla Chiesa. Sul contributo che il nuovo Beato ha dato alla Chiesa e al pensiero cattolico, Alessandro Gisotti ha intervistato lo storico Agostino Giovagnoli, docente all’Università “Cattolica” di Milano:
R. – E’ una figura che ha illuminato davvero tutto l’’800 italiano ed europeo. Certamente è stata una persona molto sensibile al suo tempo. In questo senso ha costruito un ponte - rispetto ad un mondo che stava cambiando vorticosamente ed in modo problematico - per una Chiesa che veniva violentemente separata dallo Stato, che si trovava di fronte a quella che i contemporanei chiamavano la “rivoluzione”. Rosmini ha mostrato la strada che la ”rivoluzione”, chiamiamola così, non era solo contro la Chiesa, ma poteva diventare amica della Chiesa e amica della fede soprattutto. Questo io credo abbia aperto una strada di grande importanza.
D. – “Le cinque piaghe della Santa Chiesa” è l’opera più nota di Rosmini, un’opera che non fu capita all’epoca, ma che successivamente ha dato molti frutti. Qual è la tesi forte, espressa da Rosmini?
R. – Era un libro del 1832 che fu pubblicato in realtà nel 1848. Quindi, tutti lo lessero nel contesto politico del ’48. In realtà, la tesi di fondo è una tesi ecclesiologica ed è una tesi debitrice, come tutta l’ecclesiologia di Rosmini alla scuola di Tubinga, alla scuola tedesca, e su questa base Rosmini sostiene alcune tesi che, di fatto, sganciano la Chiesa dagli ultimi residui del rapporto con l’ancien régime e mostrano l’universalità della Chiesa: una Chiesa amica dei popoli e non dei potenti, una Chiesa amica dei popoli, perchè essa stessa è realtà di popolo. Quindi, non tanto per un’affinità politica, ma per un’affinità di sensibilità sostanziale con le ragioni profonde dell’epoca. Basti pensare, in questo senso, all’insistenza sulla necessità della lingua liturgica volgare. Di fatto, noi vediamo un profeta, un precursore che ha anticipato il Vaticano II sotto molti profili.
D. – Rosmini resta anche un modello esemplare di uomo capace di dialogare con tutti, in particolare con gli intellettuali del suo tempo, senza annacquare la propria identità cristiana. Si coglie una certa sintonia con Joseph Ratzinger...
R. – Io credo proprio di sì. Accennavo prima alla parola “rivoluzione”. A me ha colpito qualche tempo fa che Benedetto XVI non abbia paura di parlare del cristianesimo come di una rivoluzione. In qualche modo, Rosmini ha fatto questo, cioè ha liberato la Chiesa dal rischio di appiattirsi sulla contro rivoluzione: non tanto una posizione politica, ma una posizione ideologica di avversione al mondo moderno e a tutto ciò che il mondo moderno porta con sé. Invece, appunto, la capacità di Rosmini è stata quella di cogliere la questione antropologica, diremmo con le parole di oggi. Una delle cose più originali di Rosmini fu la sua antropologia, un’antropologia innovativa, perché non pessimista come quella prevalente nel cattolicesimo del suo tempo, spaventato dalle novità della modernità, ma un’antropologia aperta, positiva, in cui non si nega l’esistenza del peccato originale, ma si coglie tutte le infinite possibilità che la grazia apre all’umanità. E’ una chiesa amica, amica della novità, amica del tempo, senza rinunciare in nulla all’annuncio cristiano, anzi valorizzandone proprio gli aspetti più profondi e, spesso, meno compresi dal mondo contemporaneo.
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2 commenti:
"Basti pensare, in questo senso, all’insistenza sulla necessità della lingua liturgica volgare. Di fatto, noi vediamo un profeta, un precursore che ha anticipato il Vaticano II sotto molti profili."
Giovagnoli dovrebbe sapere che:
a) Rosmini era CONTRO la liturgia in volgare,come espressamente dichiarò nel famoso "Le 5 piaghe della S. Chiesa" per evitare che le sue riflessioni fossero fraintese. Rosmini insisteva invece, e giustamente, su catechesi e formazione che permettessero di capire DAVVERO la S. Messa e la fede in genere, e siamo ancora alla stessa piaga, mi pare.
b) che il Concilio VAticano II stabilì ESPRESSAMENTE che il Latino rimanesse la lingua liturgica e che i fedeli sapessero recitare e cantare in LATINO le parti a loro spettanti (SC 36 e 54)
Basta con l'"ermeneutica della rottura" e le balle su Rosmini e sul Concilio. Si leggano cosa scrisse Ratzinger su la differenza tra Rosmini e i suoi "interpreti" nella nota della CDF dell'1/7/2001
Sono d'accordo con Giovagnoli, a parte una sfumatura che rende opportuna una precisazione: Rosmini ne "Le cinque puiaghe",, I 15, che "è necessario, o almeno grandemente utile, che il popolo possa intendere le voci della Chiesa nel culto pubblico" (il che significa porre le premesse per l'accettazione delle lingue volgari nella liturgia). Solo per prudenza egli aggiunse in un secondo momento i capp. 23-23, ove dichiara di non volere l'uso liturgico delle lingue volgari: ma si tratta chiaramente di una mossa strategica per prevenire una condanna (che purtroppo arrivò comunque) da parte delle ottuse autorità vaticane dell'epoca.Lo stesso discorso vale per il punto b: anche il Concilio doveva preparare gradualmente l'innovazione. Ma un'ecclesiologia incentrata sull'idea dell'unità del popolo di Dio e sulla fine della separazione tra clero e popolo (denunciata già da Rosmini) non poteva non implicare anche una riforma liturgica.
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