25 febbraio 2008
Fede, ragione, università: il prof. Possenti commenta il discorso mai letto dal Papa alla Sapienza (Zenit)
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Fede, ragione, università
ROMA, sabato, 23 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato dal professor Vittorio Possenti, docente di Filosofia politica presso l'Università di Venezia, intervenendo il 6 febbraio scorso all’Università “La Sapienza” di Roma, in occasione di un Seminario per analizzare la Lectio magistralis che Benedetto XVI non ha potuto pronunciare in quella università.
* * *
Il tema che interpella è tra i più affascinanti; la sua straordinarietà è acuita dal riferimento al discorso non letto a ‘La Sapienza’ di Benedetto XVI (17 gennaio 2008), pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana col titolo significativo “Non vengo a imporre la fede ma a sollecitare il coraggio per la verità”. Non ne proporrò un commento analitico, ma lo terrò nello sfondo, ispirandomi ad esso nel mio cammino. Il testo del vescovo di Roma apre orizzonti inattesi e libera lo sguardo della mente per nuove domande che aprono al domani e invitano a meditare.
Fede e ragione: un rapporto necessario per entrambe
1. Fede e ragione si relazionano necessariamente poiché il loro scopo è l’attingimento del vero, e prendono entrambe risalto se sanno coltivare il coraggio per la verità. La sua questione è universale, ed anche la ragione pubblica di un Rawls non ne può fare a meno, venendo condotta a confrontarsi con la sfera della religione e con la domanda sulla fede. Questo movimento ‘nuovo’ è in atto in Occidente, e ne stabilisce il quadro spirituale di base, cui ripetutamente Benedetto XVI allude.
Nello sfondo del discorso si percepisce l’assunto che l’epoca della secolarizzazione non sia un dato irreversibile e non costituisca quell’indiscutibile segno dei tempi al quale l’azione e la presenza dei cristiani dovrebbero adeguarsi.
In merito il ritorno delle religioni nella sfera pubblica segnala che il carattere della secolarizzazione moderna sta cambiando pelle, e che nella società postsecolare (che non significa la società in cui ogni forma di secolarizzazione è scomparsa) si può camminare verso un rapporto più cordiale tra fede e ragione.
Come già a Regensburg, la domanda cui Benedetto cerca di rispondere è: che cosa è la ragione? Domanda eminentemente ‘socratica’ e inderogabile per il carattere degli ascoltatori cui è indirizzata, i docenti e gli studenti che compongono l’universitas studiorum, quell’università che ruota interamente attorno ai compiti della ragione ed alla ricerca. L’altra grande domanda che innerva il discorso suona: “qual è la natura e la missione dell’università?” Su queste due questioni poggia la riflessione del Papa.
Con il compimento nella pienezza dei tempi (plenitudo temporum, cfr. Gal 4,4) della Rivelazione biblica nasce il permanente tema del nesso tra fede e ragione nel senso di un possibile incontro e reciproco riconoscimento. In questo atto, mai scontato, mai alle nostre spalle come evento acquisito, la ragione (e la filosofia) hanno una parola da dire, ed un ascolto da compiere, a partire dall’interrogativo sul vero e dal richiamo della coscienza. La ragione come suo primo movimento non si inginocchia dinanzi alla fede: le va incontro, la interroga, talvolta la accoglie, in tal caso cercando l’intesa e la cooperazione. Fede e ragione dovrebbero essere due amiche, certo diverse e perfino eterogenee, ma che si stimano e si riconoscono. Oltretutto il loro scopo è lo stesso, sebbene secondo diversi cammini: conoscere il vero, e trarne gioia e appagamento.
Lo scopo della ragione è di conoscere la realtà, l’essere, e in questo movimento alla fine Dio. Essa arriva a coglierne l’esistenza, a conoscere qualcosa di lui, ma non lo può raggiungere: getta uno sguardo sull’oltre, che è ad un tempo il Trascendente e l’aldilà, ma non può portarci lì. Occorre che dall’ “altrove rispetto al mondo” venga qualcuno a prenderci per mano e farci compiere il viaggio.
In questa disposizione si concreterebbe l’atteggiamento di una ragione disposta ad ascoltare a pieno arco. Aperta è quella ragione che con procedimento razionale e controllabile si riconosce insufficiente ad offrire una visione completa; consapevole dei propri limiti, è spontaneamente inclinata a completare e vivificare con gli elementi della fede quelli raggiunti dalla ragione. Un simile atteggiamento di apertura e di dialogo non toglie autonomia al pensiero umano. Se per secoli molte obiezioni si sono appuntate sull’espressione non felice per cui la filosofia era considerata ancilla della teologia, vi è oggi da temere che la filosofia e più ampiamente la ragione non siano divenute ancillae scientiarum : sempre più spesso sono solo le scienze ad assegnare alla ragione i temi da pensare, il perimetro entro cui muoversi, il campo delle cose disputabili.
Che la ragione sia oggi identificata con quella scientifica e che il perimetro totale del sapere sia definito solo dalle scienze, è una tesi frequente che implica l’insignificanza conoscitiva della fede e della religione. Qualche giorno fa E. Boncinelli ricordava (Corriere della sera, 29 gennaio) che il compito delle religioni di spiegare l’origine e la natura del mondo non ha più oggi molta importanza conoscitiva e razionale, sottintendendo che il compito è adempiuto solo dalla scienza. A mio avviso si tratta di una tesi corriva, la quale impoverisce assai la domanda sulla verità, un esito che più di ogni altro l’uomo-essere pensante deve temere. Il senso ultimo del discorso di Benedetto XVI sta nel mantenere desta e viva la sensibilità per la verità.
In ciò appare un compito imprescindibile della fede, il suo porsi come pungolo nei confronti della ragione, perché non abdichi alle sue responsabilità. Sovviene qui un passo del libro di Tobia, uno dei più deliziosi della Bibbia (cfr. il cap. 6). La fede può essere per la ragione qualcosa di analogo a quanto operò nel viaggio di Tobia l’Arcangelo Raffaele: egli guidò nel cammino, neutralizzò i mostri marini, preparò un collirio per gli occhi, affinché fossero difesi da malattie e vedessero meglio. Incontrando la ragione, la Rivelazione la provoca ad essere se stessa, a purificarsi del peso soverchio degli interessi; può aiutare la ragione e al suo seguito l’intera università dal rischio di cedere al positivismo e allo scientismo. Un particolare messaggio è indirizzato alla filosofia cui si chiede di non degradarsi in positivismo, e alla teologia affinché non sia confinata nella sfera privata di un gruppo.
2. Indubbiamente viviamo in un contesto culturale in cui il relativismo, specialmente morale ma anche intellettuale, è spiccato. Si tratta di diagnosi ripetutamente riproposta, e non intendo certo negarne la validità, la quale tuttavia è parziale poiché la cultura di taglio illuminista che pervade l’Europa non è su molti punti una cultura relativista. Pensiamo all’estensione enorme dell’etica utilitaristica che non è relativistica ma che avanza la pretesa all’oggettivismo, addirittura attraverso un calcolo. Forse non è neppure appropriato parlare di relativismo antropologico dal momento che il materialismo a sfondo evoluzionistico e biologico tende ad affermare come unica realtà l’uomo senza volto né spirito, l’uomo risolto nel circolo della natura. Poniamo mente pure alla valanga di pubblicazioni che sostengono che l’unica verità possibile ci viene solo dalla scienza. Lo scientismo sostiene che la scienza è l’unica via per l’acquisizione di verità ferme, fondate sulla roccia della dimostrazione e della sperimentazione. Si incontra qui una compatta visione del mondo, per nulla relativistica, che avanza brandendo come una spada la ‘verità forte’ della scienza che come l’acqua ragia dissolve ogni altro vero, che mette in questione e talvolta deride le fondamentali tradizioni morali e religiose vedendo in esse quasi solo superstizione, soperchierie, tendenza al fanatismo ed ignoranza.
E’ possibile che il Papa abbia dinanzi questa situazione quando invita a non gettare impunemente “nel cestino della storia delle idee” queste tradizioni sapienziali, in nome di una ragione decentrata dal reale e astorica.
Il rischio del nichilismo (giuridico)
3. Al tema della ragione umana e dei suoi compiti vorrei assegnare una declinazione specifica, chiamando in causa – anche in rapporto alla sede in cui siamo – la politica e il diritto. Me ne dà lo spunto una domanda decisiva di Benedetto XVI che non ha ricevuto l’attenzione che merita, pur segnalando la massima difficoltà politico-giuridica in Occidente: “come possa essere trovata una normatività giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana, e dei diritti dell’uomo”.
Tale interrogativo è elevato nella parte espressamente dedicata alla Facoltà di Giurisprudenza, e in rapporto alla relazione tra diritto e libertà e al fatto per cui “il diritto è presupposto della libertà, non il suo antagonista”.
Per tale esito una carta costituzionale quale fonte di legalità e di partecipazione dei cittadini aperti ad un dialogo ragionevole tra loro, come sostiene Habermas, è qualcosa di grande e insieme di insufficiente, se vengono meno i fondamenti prepolitici della politica e del diritto. Anche in essi vi è bisogno di verità, altrimenti saremo sopraffatti solo dagli interessi. Il centro del discorso ratzingeriano è l’autonomia dell’università da ogni autorità politica o ecclesiastica e il suo legame esclusivo con l’autorità della verità.
Occorre reintrodurre il concetto di vero e di giusto nel dibattito pubblico, quale luogo sovraordinato ai partiti e ai gruppi di pressione, che mirano a conseguire maggioranze e a soddisfare specifici interessi che “però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme”. Bisogna ascoltare istanze diverse. Anche per questo scopo esiste l’università come luogo di autonoma ricerca del ‘chierico’ che non deve tradire (J. Benda). Nell’università medievale le facoltà di teologia e filosofia erano custodi dell’apertura alla verità. Nell’università dell’epoca dell’idealismo e del romanticismo lo stesso compito era assegnato alla filosofia. Oggi non sappiamo più a chi spetti fornire un asse di riferimento. Ora, se l’università perde la tensione al vero diventa un’istituzione non soltanto sensibile all’utile, ma al potere e all’ospite più inquietante fra tutti: il nichilismo anche nella sua variante di nichilismo giuridico.
4. In rapporto al diritto, prendiamo le mosse da due domande essenziali: 1) esiste un diritto/jus fondato nella ragione e nella natura umana, per cui non abbiamo a che fare soltanto con leggi, norme, codici arbitrari nel senso che il loro essere e valere si riduce a venire posti da singole volontà al momento potenti? 2) se invece così fosse, dobbiamo accettare questo stato di cose, abbandonando il diritto e la politica alla casualità, alla contingenza, alla potenza, consegnandoli alla volontà e all'arbitrio degli uomini?
Il nichilismo giuridico sussiste quando si risponde negativamente al primo interrogativo e positivamente all’altro. Nel nichilismo giuridico accade una specifica forma di oblio: oblio del giusto e della giustizia nel loro procedere dalla ragione, di modo che la legge di ogni tipo ed ordine è espressione di volontà e non possiede altra ragion d'essere che il puro volere del legislatore. Non esistono né giusto né ingiusto in sé, ma giusto ed ingiusto cominciano a valere solo dopo la decisione della volontà positiva del legislatore, la quale è normata solo da se stessa, e perciò può avere qualsiasi contenuto e ospitare qualsiasi scelta. Il diritto non è (più) portatore di razionalità, ma manifesta l’emergere di una volontà che vuole se stessa e che con statuizione eminentemente imperativa stabilisce cosa è diritto e che cosa è giustizia.
Nel nichilismo giuridico si manifesta la vittoria del positivismo giuridico assoluto, che separa il diritto dal giusto, identifica loi (positive) e droit sostenendo che niente si può contro la legge, ma tutto si può con la legge, dal momento che questa può avere qualsiasi contenuto.
A mia conoscenza F. Nietzsche non ha fatto ricorso al lemma ‘nichilismo giuridico’. Tanto più significativo che ne abbia indicato ante litteram con chiarezza meridiana il contenuto reale: “Ma l’elemento più decisivo, quel che la suprema potestà fa e attua contro la strapotenza dei sentimenti avversi e pervicaci – così fa sempre, non appena è in qualche modo abbastanza forte per questo – è la statuizione della legge, la chiarificazione imperativa di quel che deve in generale valere ai suoi occhi come permesso e legittimo e di quel che invece deve valere come proibito e illegittimo.. Conformemente a ciò, solo a partire dalla statuizione della legge esiste ‘diritto’ e ‘torto’…Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso… Un ordinamento giuridico pensato come sovrano e generale, non come strumento nella lotta di complessi di potenza, bensì come strumento contro ogni lotta in generale… sarebbe un principio ostile alla vita, un ordinamento e disgregatore dell’uomo, un attentato all’avvenire dell’uomo, un indice di stanchezza, una via traversa verso il nulla” (1).
Alla domanda di Benedetto, e di ogni uomo, su “come possa essere trovata una normatività giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana, e dei diritti dell’uomo”, Nietzsche risponde con chiaro e impietoso no. L’esito di tale diniego è la vittoria della volontà di potenza più potente, e il tracollo di ogni diritto e dei diritti umani. Il nichilismo o antiumanesimo giuridico, appunto, che fanno rientrare giustizia e diritto nell’area della potenza. In L’homme révolté A. Camus lo disse chiaramente: senza un valore che la trasfiguri, la storia è soggetta alla legge dell’efficacia e della potenza.
Su tale cammino Nietzsche era stato preceduto da Hobbes, seppure con minore virulenza: “Da questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo consegue [nello stato di natura] anche che niente può essere ingiusto. Le nozioni di diritto e torto, di giustizia e di ingiustizia non hanno luogo qui. Laddove non esiste potere comune, non esiste legge, dove non vi è legge, non vi è ingiustizia” (2).
5. Il nichilismo giuridico è momento notevole della crisi che attraversa il pensiero occidentale e che nasce originariamente dalla pressione dell’ideologia, intendendo con questo termine il rifiuto del principio di realtà e la sua sostituzione con la falsa coscienza, col desiderio elevato a regola assoluta, con la volontà che si libera di ogni misura. Elevandoci al livello del concetto, la pressione dell’ideologia prende nella dottrina filosofica della conoscenza il nome di antirealismo: il cammino da non prendere, da cui ci libera la strada maestra del realismo. Questa crisi non ancora risolta ha avuto e forse ha ancora il suo epicentro nelle università (3). Una parte della razionalità giuridica attuale si pone come largamente storica, terrena, non disponibile a rinviare ad una misura stabile di giustizia, ad un diritto naturale che nel suo contenuto essenziale vale dovunque. Tanto la decisione politica è un decisione posta da una volontà, altrettanto il diritto positivo è solo un diritto posto, che non si richiama ad un diritto superiore né lo imita, ma che sta in solitudine e riposa solo sulla volontà degli uomini. Gli scopi stabiliti da singole volontà subiettive non possiedono il carattere della necessità o almeno della stabilità: possono andare in mille direzioni ed essere aperti a tutte le soluzioni. Come ad un certo momento sono stati introdotti nell’esistenza da una volontà dotata di potere, così possono più avanti scomparire in virtù di una volontà più forte che ne ponga altri, ugualmente segnati dalla casualità e dalla contingenza del volere.
Con tali opzioni viene smarrito il carattere umano e sapienziale del diritto: quel diritto ‘pensato rettamente’, che si china con attenzione e partecipazione sui fatti e relazioni tra gli uomini, cercando di inserirvi una misura di giustizia, una sapienza pratica che certo non esaurisce l’edificio della sapienza ma che è necessaria alla vita perché la sorregge, la rassicura, la corregge.
Il compito dell’università
6. Nel discorso di Benedetto chiara è la simpatia per la formazione delle nuove generazioni, per un nuovo umanesimo che prenda slancio nelle università. In realtà deve essere così, poiché l’istanza o la verticale più seria concerne oggi più l’uomo che Dio, più lo svanire dell’uomo che l’ateismo. Qui il Papa parla come “una voce della ragione etica dell’umanità”, depositaria di una tradizione responsabile “nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita”, superando la ragione astorica e centrata su se stessa che spesso taglia via da sé il rapporto col bene e si volge in mero raziocinio disincarnato.
Ma non è soltanto l’etica il problema, ma “la brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità”, per raggiungere “la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università”. Essa è nata nell’Europa cristiana con un compito specifico, con una missione, che non si esauriva in uno scopo utile. Trattando dell’università medievale il Papa cerca di “far trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito”.
A che cosa serve ultimamente l’università? Il suo fine si esaurisce nel servire ad uno scopo utile e volto al mercato, o è ad essa richiesto qualcosa di più? Se ci si imbarcasse in un’inchiesta sociologica per rilevare opinioni sul compito dell’università, la risposta più frequente suonerebbe all’incirca così: l’università si giustifica in quanto prepara nei vari campi personale qualificato, dotato di moderne e indispensabili conoscenze specialistiche per la gestione tecnico-economica della vita e per le relative pratiche sociali, senza di cui nessuna società potrebbe durare. Il compito del docente si risolverebbe soprattutto nell’elaborare e trasmettere conoscenze del tipo indicato, e quello dello studente nell’apprenderle e nel trarne vantaggio in ordine all’inserimento nella grande macchina sociale e nella organizzazione del lavoro. In breve: lo studente frequenta l’università per apprendere i rudimenti di una professione, e il docente è colui che è socialmente abilitato a fornirglieli.
Senza negare questi termini, sono dell’opinione che per certi aspetti l’università debba essere ‘inutile’, non servire a nulla. Essa infatti con una parte di se stessa appartiene ad una sfera che è al di sopra dell’utile, al quale soltanto si applica la categoria del servire o del non servire, del mostrarsi utile o inutile. A rigore, la ricerca del vero non serve a nulla, perché appartiene all’ordine dei fini, non dei mezzi; e solo i mezzi servono. Essa, in quanto è al di sopra dell’utile, è un’attività terminale, non mediale o strumentale. Non di solo pane vive l’uomo, ma anche di ragioni, verità e valori. Ascendendo verso l’ordine di ciò che è ultimo e supremo, la ricerca stimola in noi il desiderio di una conoscenza pura e disinteressata su quegli oggetti (la natura delle cose, l’essere, l’uomo, Dio, lo spirito) che sono indipendenti e superiori al nostro fare.
7. Digressione sulle metamorfosi dell’università. Le università che iniziano a costituirsi nell’Europa del XII secolo nei chiostri dei conventi e attorno alle cattedrali designano una comunità di maestri e di scolari, uniti dal desiderio di conoscere, non da un progetto che avesse anticipatamente misurato il suo apporto alla sfera dell’utile e delle attività in senso lato produttive. Anche se volgiamo lo sguardo verso un passato ancora più lontano, verso cioè l’antica Grecia dell’Accademia platonica e del Peripato aristotelico, e poi verso la scuola di Plotino in Roma, si incontrano eloquenti esempi di istituzioni votate alla ricerca del vero e talvolta, come nel caso dell’Accademia e forse della Scuola di Plotino, dotate anche di un carattere a suo modo religioso.
Il carattere fondamentale dell’università medievale riposa su tre intuizioni reggenti: l’unità non solo metodologica-formale del sapere, ma appunto anche contenutistica; la superiorità del sapere teoretico su quello “tecnico” e applicato; una gerarchia delle discipline costituite in base al rango dell’oggetto, nel senso che le discipline più alte vertono sugli oggetti più nobili ed universali, sino a culminare nelle discipline che si occupano di Dio. Conseguentemente già dall’inizio prende corpo una suddivisione della ricerca in alcune facoltà, la più importante delle quali è la facoltà di teologia (Sacra dottrina). Al centro dell’Università medievale sta appunto questa facoltà, il cui insegnamento si volge verso la rivelazione quale autocomunicazione di Dio all’uomo. Dio, Verità e Bene sembrano costituire le parole chiave dell’università medievale, la cui vita si prolunga attraverso alti e bassi, ma con un progressivo declino, sino al Rinascimento. Successivamente si verificò una ripresa aggiornata del progetto originario con l’intensa opera di fondazione di molte università in Europa e altrove da parte dei Gesuiti. Questi riformarono la ratio studiorum, incrementarono il numero degli studenti, tennero conto a partire dalla fine del ‘500 del più accelerato sviluppo delle matematiche e della fisica. Difficilmente si potrebbe sostenere però che mutassero radicalmente il modello dell’università medievale, di cui cercarono anzi di onorare e riprendere le intuizioni centrali di cui si è detto.
Un primo consistente distacco dal modello medievale si verifica con l’Illuminismo, segnato dall’idea della prevalenza del sapere morale su ogni altro e dalla “conversione” verso le conoscenze tecnico-scientifiche utili. Il primo di questi due aspetti è teorizzato da Kant nell’opuscolo Il conflitto delle facoltà, dove si sostiene la centralità della facoltà di filosofia (rispetto a quella di teologia) e in essa della filosofia pratica, al posto di quella teoretica ormai spodestata dalla rivoluzione kantiana. Tuttavia l’università nell’epoca dell’illuminismo non sembra essersi ispirata ad un modello univoco e ad un tempo chiaramente formulato. Influì in questi elemento anche il fatto che l’illuminismo fu un movimento vasto, ma diffuso perlopiù nei circoli dei philosophes, operanti al di fuori delle istituzioni universitarie. Voltaire, Diderot, d’Alembert ed altri non occuparono mai una cattedra. Pur con queste riserve sembra lecito asserire che le tre le premesse fondative dell’università medievale tendono a venire abbandonate: l’unità non solo metodologica del sapere è sostituita da un’unità di tipo enciclopedico-addittivo: il sapere teoretico rimpiazzato da quello pratico; e la gerarchia delle discipline non più misurata in base alla nobiltà degli oggetti, i più alti dei quali indietreggiano verso l’area dell’in sé non conoscibile.
Incontriamo un nuovo modello, omogeneamente e rigorosamente pensato, nella università prussiana di Humboldt, in cui si solidifica un consapevole laicizzazione dello schema medievale, pur nella continuità di alcune intuizioni di fondo, quali il valore dell’unità del sapere e la superiorità di quello teoretico. La laicizzazione si concreta nell’assegnare alla facoltà di filosofia il compito centrale. In virtù del concetto idealistico di filosofia e di religione, si pensa che la prima conosca nella maniera più perfetta le verità esposte in forma solo rappresentativa dalla seconda. Tale modello fu perlopiù limitato dalla sola area di cultura germanica e non durò molto a lungo, soprattutto se rapportato al paradigma precedente.
Intanto irrompono le scienze naturali e quelle storico-umanistiche che cambiano il volto dell’università, e rendono più ardua – quasi al limite dell’impossibile – la ricerca di un ordinamento unitario dei saperi. Il motivo principale della difficoltà non risiede, come talvolta si pensa, nella moltiplicazione delle discipline e neppure nel severo metodo perseguito nella ricerca scientifica e storico-umanistica, fatto di protocolli rigorosi e accertabili: tutto ciò è solo da ammirare. Pesa invece la perdita di coraggio rispetto alla conoscenza dell’intero, la volontà di stare entro il frammento senza uscirne e talvolta anche l’illusione di scambiare il frammento per il tutto.
Dal lato dei saperi tecnico-scientifici verso la fine del XVIII secolo si assiste in Francia alla fondazione e al potenziamento delle écoles polytechniques, antesignane di un’espansione delle università, specialmente nelle facoltà scientifiche ed economiche, che accade alla fine dell’800 e nel ‘900 in maniera crescente. Una parte di tali facoltà è figlia della frantumazione della filosofia pratica aristotelica, che nella sua unità tripartita comprendeva etica, politica ed economia. Nascono le facoltà di Scienze economiche e di Scienze politiche, talvolta con l’intento di autonomizzarsi dall’etica a favore di una fondazione wertfrei (Weber). Molte facoltà si assimilano al modello delle scuole politecniche, indirizzate a formare tecnici e professionisti. Nel contempo le facoltà di filosofia rinunciano a dare indicazioni sui fini e la totalità. Conseguentemente nell’università non sembra quasi più esistere una sede dove possa esser posta la domanda sull’uomo, sul bene e sul vero, e dove possa esser nutrito l’impulso disinteressato verso il conoscere.
L’’educazione liberale’ e il nuovo umanesimo
8. L’università è denotata secondo Benedetto XVI dalla “ricerca e dalla formazione delle nuove generazioni”, ossia da uno scopo conoscitivo, riassunto forse nel compito infinito di assicurare l’unità del sapere; e da uno scopo antropologico, costituito dal compito di promuovere la formazione del giovane alle virtù e discipline intellettuali, introducendolo al giusto rapporto tra conoscere e agire, teoria e prassi. Questi scopi non sono indipendenti uno dall’altro, perché nel primo rientra la domanda su chi e che cosa sia l’uomo, senza di cui il momento dell’educazione della persona non potrebbe avanzare. Esso fra le altre cose richiede l’esercizio del dialogo e più profondamente la costituzione di un’autentica comunità di ricercanti, che rappresenta forse, insieme alla comunità familiare, la più reale comunità tra gli esseri umani, quella di coloro che cercano la verità e si sforzano verso la conoscenza, ossia la totalità delle persone nella misura in cui desiderano conoscere.
Uno dei massimi compiti, forse il principale, dell'educazione umanistica o “liberale” (uso il termine con le virgolette, perché viene assunto nel senso classico delle artes liberales, e non in riferimento alla cultura politica del liberalismo) è di mirare alla formazione-educazione dell'uomo, quale essere potenziale che mira oltre se stesso e che cerca di conquistare se stesso. La perdita o l’eclissi della paideia e dello scopo educativo incammina verso una visione angusta, in cui il processo educativo forma specialisti più che soggetti dotati di una solida istruzione generale e di sapienza. Tra l’utilità e la sapienzialità, che non si oppongono e povrebbero convivere, gli abbandoni educativi cui cediamo, optano per il primo criterio e tralasciano il secondo
Un’educazione “liberale” aiuta lo studente a cercare la risposta alla domanda: che cosa è l'uomo? Essa riveste valore per coloro che, desiderando vivere autonomamente, non si fanno condizionare dai facili modelli proposti dal mercato o dalle risposte più scontate. Nell'educazione “liberale” attraverso la lettura dei grandi testi letterari, poetici, filosofici, scientifici, religiosi, politici, viene cercato il tutto nel frammento; vengono scoperte le più alte possibilità umane, e trovate risposte che sfuggono a coloro che non ne conoscono che una o poche. Ma, ahimè, oggi l'università non fa molto per stimolare e soddisfare il desiderio di un'educazione “liberale”. Essa “fiorì quando preparò la strada alla discussione di una visione unificata della natura e del posto dell'uomo in essa” (4). Da ciò si intuisce quale compito dovrebbe esplicare l'università se rimanesse fedele alla sua vocazione: la ricerca dell'unità del sapere e la superiorità del sapere disinteressato su quello utile, cui si lega la superiorità della sapienza sulla scienza (5). Ma questo è ancora lo scopo morale dell'università, o invece essa si limita a dotare gli studenti di abilità e competenze necessarie nelle molteplici pratiche sociali? In tal modo prosegue lo spostamento, iniziato con l'illuminismo, dello scopo educativo dalla formazione dell'uomo alla formazione dello specialista. Al compito dell'università di nutrire l'impulso disinteressato verso la conoscenza e la verità, essa risponde in modo che i giovani non incontrano quasi più una sede dove possano esser poste le domande che contano.
Così solo per un'illusione continuiamo a chiamare università l'università, perché in essa prevalgono l'anarchia delle discipline e i comandi imperiosi di molteplici specializzazioni non illuminate da un sapere unificato. L’università è nata nello e con lo spirito socratico, che non si stanca di chiedere: che cosa è la giustizia? il bene? l'essere? la conoscenza? E che cosa è superiore o inferiore? La crisi della paideia possiede un’origine intellettuale, non in primo luogo sociale, politica ed economica. “La crisi dell'educazione liberale è un riflesso di una crisi al vertice dell'insegnamento, un'incoerenza e un’incompatibilità tra i primi principi con cui interpretiamo il mondo, una crisi intellettuale della più grande ampiezza, che costituisce la crisi della nostra civiltà” (6). Una delle sue maggiori conseguenze è il declino dell'educazione “liberale” dell'uomo politico e dello statista, che fino ad un passato non lontanissimo ha costituito il loro tipo specifico di educazione.
Congedo
L’intima origine dell’università sta nel desiderio di conoscenza, impulso connaturale all’uomo che si concreta nel moto della mente verso il vero e nel moto della volontà verso il bene. In questo movimento è interessato lo strato fondamentale dell’umano: e perciò non in omaggio ad un imperativo di fede ma in virtù di tale impulso ed inclinazione radicali i docenti di qualsiasi convinzione e di qualsiasi università – pubblica, privata, religiosa – non possono non perseguire nella libertà la ricerca del vero e del bene, considerandolo il loro primo obbligo.
Ritengo che l’illuminismo in senso originario, ossia l’illuminismo della ragione/logos, sia cosa buona. Aggiungo che ancor meglio è un illuminismo della ragione (scienze e filosofia) che dialoga con la fede e la teologia. Per tale esito i ricercanti dei vari campi dovrebbero occuparsi anche dei saperi che non praticano direttamente: per esemplificare, i teologi delle scienze e gli scienziati di filosofia e teologia, senza cedere al pregiudizio secondo cui dall’altra parte vi sia molto di inutile e poco di interessante. L’illuminismo della ragione nutrita dalla Bibbia ha condotto i credenti nel Cristo a separarsi dal mythos e a scegliere per il logos, nella scoperta di Dio contemplato con la mente e amato col cuore. Nessun irenismo sdolcinato in queste espressioni, che non ignorano la lotta: lotta sì, ma per la verità, non per il potere. Spesso purtroppo accade il contrario: entro uno schema di lotta per la supremazia si collocano frequentemente in Italia le relazioni tra il ‘partito’ laicista e quello religioso. Una quota non piccola del laicismo nostrano risulta più anticlericale e antiecclesiale che veramente laica; un laicismo insomma che si è laicizzato nella contrapposizione alla chiesa stabilita più che attraverso un processo di crescita autonoma.
Il problema autentico è quello ‘socratico’: non distogliersi dalla ricerca e restare in cammino accompagnati dalla domanda sul vero e sul bene.
NOTE
(1) Genealogia della morale, II Dissertazione, Adelphi, Milano 1988, p. 65s; il corsivo è mio.
(2)Leviatano, CDE, Milano 1996, cap. XIII, p. 103.
(3) Per un chiarimento di questi punti decisivi rinvio a Nichilismo e metafisica, 2° ed., Armando, Roma 2004.
(4) A. Bloom, The Closing of the American Mind, New York, Simon and Schuster,
1988, pp. 346-347.
(5) Secondo Maritain il più alto scopo dell'educazione liberale consiste nel dare al giovane il possesso delle basi della sapienza. Cfr. L'educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1958, p. 101.
(6) A. Bloom, The Closing of the American Mind, cit., p. 346.
[Tratto dal sito web dell'Osservatorio Internazionale "Cardinale Van Thuân" sulla dottrina sociale della Chiesa: www.vanthuanobservatory.org]
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