4 febbraio 2008

Quando la «laicità malata» è una scorciatoia per l'eugenetica


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Quando la «laicità malata» è una scorciatoia per l'eugenetica

«Se siete qui è perché sapete che ogni vita va preservata. E io sono orgoglioso di essere con voi». Il 22 gennaio scorso, trentacinquesimo anniversario dell'entrata in vigore della legge che legalizza l'aborto negli Stati Uniti, il presidente George W. Bush ha partecipato a Washington alla «Marcia per la vita» aderendo apertamente alla causa dei «pro-life».

Sull'aborto, l'America è un Paese diviso quanto e forse anche più dell'Italia. Ovvio che non tutti gli americani siano d'accordo con il presidente, ma nessuno ha parlato di «attentato alla laicità». Quella di Bush è stata accettata come un'iniziativa pienamente compatibile con la sua laicissima funzione di presidente.

L'Italia invece è un Paese in cui c'è chi trova rischiosa per la laicità persino una conferenza all'università, se a tenerla è stato invitato il professor Joseph Ratzinger. Ed è anche un Paese in cui da quando il laico – anzi peggio ancora «ateo devoto», come ironicamente si autodefinisce – Giuliano Ferrara ha proposto una moratoria sull'aborto, la maggior parte dei laici si è messa sulla difensiva, rifugiandosi dietro il paravento delle leggi dello Stato.

C'è un filo sottile che unisce tutti questi fatti. È il modo di intendere la laicità.

C'è la sana laicità dell'America, che non nega nemmeno al suo più alto rappresentante il diritto di considerare ingiusta una legge di cui pure è il garante; e c'è la «laicità malata», come ha ammesso un laico a tutto tondo come il direttore di «Repubblica» Ezio Mauro, che in nome della Ragione con la maiuscola diventa incapace di stare alle sfide della ragione, umile e con la minuscola.
Lanciando la moratoria, il laico Ferrara non ha usato argomenti di tipo religioso. Ha invece denunciato «l'ipocrisia e la bruttezza di un tempo» che si scandalizza per la pena di morte ma tollera l'aborto, senza nemmeno interrogarsi se non sia, anche questa, soppressione legalizzata di una vita. Quella di Ferrara è insomma una condanna dell'aborto «entro i limiti della sola ragione», come direbbe Kant, e il suo invito a schierarsi è rivolto prima di tutto ai laici come lui.
Ma su questi argomenti scatta subito il riflesso condizionato, «è una cosa da cattolici», come se il diritto alla vita, il senso della vita, riguardasse solo chi crede in Dio.

Si potrebbe obiettare che, invece, proprio perché i cristiani riconoscono che la vita è sacra, la morte di un essere umano abortito non è per loro diversa da quella di un essere umano ucciso dalla fame, o dall'eutanasia. Sono invece i laici che teorizzano distinzioni, o che pretendono misurare la «qualità della vita» necessaria affinché una vita sia degna di essere vissuta, che dovrebbero rispondere alla provocazione della moratoria.

Ma in pochi finora raccolto la sfida a questo livello profondo, fuori dalle polemiche politiche. Uno, paradossalmente, è stato un radicale storico come Lorenzo Strik-Lievers, che pure si tiene le sue idee sulla necessità di non «imporre alla donna che non lo voglia la maternità». Eppure ha scritto che «l'aborto passa tragicamente sopra il diritto alla vita» e che non si può «negare "oltre ogni ragionevole dubbio" che l'essere in gestazione sia almeno una persona in formazione». Del resto fu proprio il «Papa laico» per eccellenza, il filosofo Norberto Bobbio, a dire, in una celebre intervista alla vigilia del referendum, che esiste «innanzitutto il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere. È lo stesso diritto in nome del quale sono contrario alla pena di morte».
Ma Bobbio sosteneva «non la laicità che ignora, che declassa, che semina il dubbio negativo del rifiuto, ma una laicità che nobilita la ragione come voce di una coscienza libera e aperta».

Oggi invece sembra dominare una laicità intesa come il rifiuto astioso di ogni discorso che esuli dalla visione scientista o materialista della realtà.

Un esempio lo ha dato il vice presidente del Senato Gavino Angius, in una lettera scritta al quotidiano «La Stampa» di Torino nei giorni del pasticciaccio brutto della Sapienza. Per quanto possa sembrare incredibile, Angius ritiene che il problema della laicità sia esploso in Italia per colpa di casi come il referendum sulla Legge 40, o il caso Welby. Casi «emblematici», a suo dire, del «grave arretramento culturale dell'Italia». Come se il pubblico dibattito sulle questioni inerenti la vita e la morte, anziché un fatto di cultura e civiltà che riguarda tutti, fossero nient'altro che un'indebita «ingerenza della Chiesa nella sfera pubblica». E concludeva: «Ecco, per me questa è la laicità». Così, mentre all'estero scienziati laici come Didier Sicard, presidente del comitato francese di bioetica, denunciano l'uso «palesemente eugenetico» dell'aborto, in Italia il professor Umberto Veronesi difende la diagnosi pre-impianto nella fecondazione artificiale perché «permette la scelta tra gli embrioni» e dà «la certezza di un figlio sano». Ma questo, secondo lui, «non ha nulla a che vedere con l'eugenetica».
Che differenza da un filosofo laicissimo (ma ci risiamo: di cultura anglosassone) come Roger Scruton, il quale ha scritto: «La discussione intorno all'aborto riguarda qualcos'altro: è una disputa fra coloro che credono che dobbiamo sacrificare noi stessi per le future generazioni e coloro che invece pensano che le future generazioni possano essere sacrificate alla nostra utilità».

© Copyright Eco di Bergamo, 4 febbraio 2008

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