11 novembre 2007
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Se avesse dovuto mettere in fila le parole più amate (e le parole per lei erano e sono il massimo della realtà, hanno carne più della carne) al primo posto ci sarebbe stata libertà. La verità sarebbe venuta dopo vita, amore, guerra. Però che verità sarebbe senza libertà, vita, amore e guerra al nulla, allo zero dove ci trascinano la morte e il nemico?
Oriana Fallaci ha cercato ogni istante la verità, sapeva che essa stava dalle parti degli occhi azzurri di Ratzinger (lo chiamava così, «Ratzinger!») e dove c’era il suono delle campane cattoliche, apostoliche e toscane. Ma ha temuto sempre che Lei, la verità negasse la libertà, che le chiedesse di rinunciare alla bestemmia. Non poteva sopportare di raggiungerla, di tenersela stretta e in pace. Lei ha amato più la libertà della verità. Io credo - ci sono cose che non si sanno, non le sa nessuno - che però alla fine sia stato Qualcuno, quel «Cristo!» che lei nominava con rabbia, con dolcezza, con furore, a tenerla tra le braccia sentendole battere furioso il cuore da usignolo, da scricciolo di 28 chilogrammi.
Oriana Fallaci con i suoi 28 chilogrammi e una potenza come la tempesta sui Caraibi è la prova che esiste l’anima, ed essa non è affatto l’«animula vagula blandula» descritta da Adriano, ma ha la fibra della donna che partorisce. Oriana non ha avuto figli, salvo i libri, ma nessuno ha saputo in questi ultimi cento anni descrivere con la dolcezza rostrata di un’aquila madre, la pena per un bimbo abortito per forza di legge o no, ma comunque inseguito, strozzato, reso nulla, lui che è tutto, così piccino, due millimetri in mezzo alle acque, ma tutto.
Come tutti i ragazzi che desiderano diventare giornalisti, mi ero bevuto i suoi libri. Li leggevo e pensavo: impossibile somigliarle, quel ritmo di scrittura che non è fine a se stesso, ma lotta per incidere le forme delle persone e dei fatti. I suoi reportage sull’Europeo. Niente e così sia. Sempre quell’ossessione del niente e il desiderio di ammazzarlo con l’infinito. Poi Un uomo, dedicato al suo amore assassinato, Alekos Panagulis. Quando vedevo qualcosa con la sua firma speravo fosse lunghissimo, non finisse mai. Perché non si leggeva per trovare l’approdo, ma per restare in balia delle sue onde, perché l’esperienza della sua lettura somigliava tantissimo all’assistere alla creazione biblica, dove un attimo prima cose animali luce acque non esistevano e poi eccole. Ho usato il tempo imperfetto, perché da quando Oriana è morta non riesco a stringere un suo libro per più di sette-otto minuti. Mi viene troppo in mente lei \.
Lei si stupiva che io ci credessi. «Tu sei troppo cattolico», concluse. Io sostenevo che Cristo fosse l’Eterno che aveva fatto irruzione nel tempo, citavo Thomas Stearns Eliot e don Giussani. Per lei era un filosofo della libertà. Aveva inventato la libertà e il diritto dell’individuo. Ma poi gli apostoli l’avevano tradito. E Dio poi era stato un’invenzione degli uomini i quali non si danno pace di vedersi sfuggire la vita. Risposi, naturalmente risposi. Volle farsi raccontare di Wojtyla. Diceva: «Per me è cattivo. È grande ma cattivo». Mi raccontò che un giorno le riferirono di un tal mensile polacco (la corressi: era un settimanale) di proprietà del cardinale di Cracovia: stava pubblicando a puntate il suo Lettera a un bambino mai nato. Era insieme lusingata, ma anche furibonda. «Come, come? ’sto prete mi pubblica e non mi chiede il permesso e non mi paga i diritti d’autore. Gli scrissi una lettera molto chiara. Mi doveva del denaro. Gli avrebbero scritto i miei avvocati». Ribattei: però era un intenditore. Spiegai la posizione del Papa sull’islam, per cui ogni uomo è suscettibile di conversione, perché la grazia di Cristo è più forte di qualsiasi condizionamento. Ed è possibile essere amico di un musulmano. C’è qualcosa di più grande persino dell’ideologia in fondo agli uomini.
Parlai del cardinale Ratzinger, di una mia antica frequentazione con lui. «Ratzinger sì che è buono, Ratzinger mi interessa. Quando lo leggo mi sembra di respirare, che pure il cancro, l’Alieno, si restringe. Potresti organizzare di farmi incontrare con lui?».
Lavorai per lei alcune settimane. Voleva sapere tutto sulla Turchia. Le inviai la descrizione scritta da me per Libero di un sacrificio rituale. Posso dirlo? La ricopiò tale e quale mettendola tra virgolette in bocca a un amico. Glielo dissi. Lei fece: «Avevo scritto una pagina in elogio tuo e di Toni Capuozzo, ma per ragioni di impaginazione non c’è stata». Una bugia. Ovvio. Urlò: «Sto morendo, capisci sto morendo. E tu ti lamenti, proprio tu che mi copi appena ti capita, anche le tesi sull'omosessualità». Un giorno mi domandò di tenerla informata sulla rincorsa al Nobel di Umberto Veronesi, avrebbe fatto di tutto per impedirne la vittoria, con le sue idee a proposito di embrioni come cose. Dall’America mi chiese persino di fare un’ambasciata telefonica a Beppe Grillo, per riferirgli che «la Fallaci» condivideva le sue posizioni contro la fecondazione artificiale mentre non capiva come una persona onesta e intelligente potesse parlare bene del sindaco di Firenze. La prossima volta che passava dall’Italia si potevano parlare tre minuti e gli avrebbe fatto cambiare idea. Grillo, meravigliato, mi rispose: «Dica grazie alla signora Fallaci. Grazie».
La chiamai sempre «signora Fallaci». Dandole del lei. Un giorno esplose contro di me una serie di bestemmie. Mi arrabbiai. «Lei fa così perché crede di farmi del male, ma lo fa a se stessa». Si addolcì, come spesso capitava, si addolciva, la pantera si accucciava morbidamente: «Renato dovresti essere contento che bestemmio. Vuol dire che credo in Dio».
Si avvicinò quindi a monsignor Rino Fisichella, il quale l'aveva difesa con un’intervista. Il rettore della Lateranense l’ha ricordata al Meeting di Rimini il 21 agosto 2007. Ha fatto il regalo di leggere in pubblico alcune lettere di cui è gelosissimo. Trascrivo, sicuro di sbagliare la punteggiatura. «New York, giugno 2005. Monsignore lei mi ha commosso. Naturalmente sapevo bene chi fosse il rettore della Lateranense, il vescovo che ragiona al di là degli schemi e senza curarsi del politically correct.
Ma a leggere la sua intervista al Corriere, ho rischiato davvero la lacrima, io che non piango mai, e mi sono sentita meno sola, come quando leggo uno scrittore che si chiama Joseph Ratzinger. Grazie di aver capito così bene, perché in lui vedo un compagno dell'anima, e perché affermo che se un'atea e un Papa dicono la stessa cosa, in quella cosa deve esserci qualcosa di profondamente vero, disperatamente vero. Il guaio è che sono molto malata. Ormai l’Alieno (come lei chiamava il cancro) mi divora persino gli occhi. Vorrei parlarle anche dell’importantissima cosa di cui suppongo lei sarà al corrente: il desiderio di incontrare, zitta zitta e lontano da occhi indiscreti, Sua santità. Sa è il desiderio che m’accompagna da quando cominciai a leggere i suoi libri.
Quando venne eletto Papa, feci sì capriole di gioia, ma nel medesimo tempo pensai: “Oddio, ora non potrò più vederlo” e con un sospirone mi rassegnai».
Ci riuscì. Ebbe udienza a Castelgandolfo da Ratzinger. Scriveva in terza persona a monsignore, per evitare che se mai qualcuno avesse aperte le lettere, non identificasse chi doveva andare dal Papa. Prima, nell’attesa, avrebbe vissuto qualche giorno a casa di Fisichella, che odiava il fumo. Come poteva farsi sopportare?
«La nostra amica parte lunedì. In città la poveretta si chiuderà in casa, come Diogene dentro la botte, anche perché essendo stata almeno dodici ore senza fumare, avrà la pressione sotto i sessanta. Ho una preoccupazione che non mi aveva mai sfiorato il cervello. Oddio! Oddio! Non ci vorranno mica gli abiti da cerimonia! Io quelli non li ho, non più! Ho soltanto spartane giacche da uomo: è lecito imporle a un sovrano? A ciò si aggiunge l’incubo della testa coperta. Io i veli in testa non li porto, neanche morta, neanche per coprire i capelli lasciati dalla chemioterapia. Di copricapo acconci non ne posseggo: se l’etichetta lo impone, come si fa? Sembrano scemenze, ma non lo sono. Dopo 26 anni non mi sono ripresa dal trauma che soffrii con lo chador, quello che mi tolsi facendo infuriare l’ayatollah. (…) A casa avrei bisogno di un ferro da stiro e due candele, di quelle che assorbono il fumo. Me lo insegnò Andreotti, che al mio arrivo nel suo studio, accese subito una candela. “Ma come! Accendi una candela a me?” gli chiesi. E lui rispose: “No, no! L'accendo alle sue sigarettacce”. Cercherò di controllarmi, lo prometto. Ma la candela ci vuole lo stesso».
Andreotti mi ha confermato l'episodio. E mi ha riferito che gli domandò se potesse avere una deroga e fumare dinanzi al pontefice perché altrimenti sarebbe svenuta. E così fumò dinanzi al Papa. Del resto in Vaticano non mancano candele.
Era generosissima. Mi chiamò perché aveva da regalarmi un libro antico, di un gesuita del seicento, che però lei odiava. Guai a toccarle i soldi del suo lavoro, ma poi dava tutto. Ha dato tutta se stessa. Una vita così è una vita vera. Non ha appoggiato la testa sulla spalla di Cristo perché era troppo orgogliosa. Figuriamoci lavargli i piedi. Chi crede di essere quel nazareno, Panagulis? Era battezzata però, ha voluto morire guardando la cupola del Brunelleschi, che è la maternità della Madonna. Ha chiesto di essere tenuta per mano dall’amico cristiano fino all'ultimo momento. Nessun funerale religioso, ma la musica è stata quella delle campane della cattedrale, e sul comodino aveva il cd del concerto di San Pietro.
Così ha descritto al vescovo la morte della sua mamma, quando seppe che si era appena spenta la mamma di Fisichella. «C’ho pensato tanto dopo la telefonata di Marco (il segretario del vescovo, ndr). “Prete!” aveva farfugliato (mia mamma, ndr) con occhi imploranti verso mezzanotte. Così ero corsa subito fuori, senza neanche infilarmi un cappotto (era inverno e nevicava). Nel buio avevo raggiunto la chiesa del villaggio e chiamato un certo don Gozzi, che non voleva venire. “Domani, domani! Ora è troppo tardi e fa freddo”. A spintoni, parolacce, minacce: “Se non mi segue seduta stante, io l’ammazzo”. L'avevo costretto a venire seduta stante con la stola viola e tutto il resto. E a vederlo entrare, gli occhi imploranti si erano illuminati di una gioia insensata, sublime e insensata.
Poi da un tipo simile assolta da peccati che non aveva mai commesso, si era appisolata con un sorriso felice».
Sono stato sulla sua tomba, al cimitero degli Allori a Firenze. Confesso di aver rubato dei sassi dalla terra. Una pietruzza l’ho infilata in un vaso di erica che accarezza il sepolcro di don Giussani. Un’immaginetta di don Gius l’ho sepolta nella terra dove Oriana giace. Lei direbbe: «Mi sa che sei un po’ pagano». Ma no, mi avete voluto bene, amici.
© Copyright Il Giornale, 11 novembre 2007
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