9 febbraio 2008

Noi e l'Islam/Parla il cardinale Tauran: "C'è una certezza alla radice del dialogo" (Tracce)


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Noi e l'Islam/Parla il cardinale Tauran

C'è una certezza alla radice del dialogo

Riccardo Piol

La lettera dei 138a Benedetto XVI. Le visite dei notabili musulmani in Vaticano. La risposta del Papa al principe Ghazi. Per il responsabile del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, potrebbero essere i primi passi di una svolta. Che non censura problemi aperti e differenze. Ma aiuta entrambi ad andare al fondo di una questione decisiva: «Qual è il mio Dio e come vivo la mia fede?»

«Ho il piacere di comunicarle che Sua Santità sarebbe ben disposto a ricevere Vostra Altezza Reale e un ristretto gruppo dei firmatari della lettera aperta scelti da Lei».
A scrivere è il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato e primo collaboratore del Papa. Destinatario, il principe giordano Ghazi, promotore della lettera che centotrentotto intellettuali musulmani hanno inviato il 13 ottobre a Benedetto XVI e ai responsabili delle altre confessioni cristiane. La “lettera dei 138”, come subito è stata ribattezzata, si intitola Una parola comune tra noi e voi, cioè tra musulmani e cristiani. E subito è stata letta come un segnale positivo lanciato dal mondo islamico. «È la prima vera iniziativa di dialogo presa dai musulmani verso i cristiani - dice il cardinale Jean-Louis Tauran - perché abitualmente i primi passi sono sempre stati fatti dai cristiani, mentre questa volta l’iniziativa è loro».
La risposta del Papa è stata recapitata al principe Ghazi il mese scorso. Così per il Cardinale - a lungo responsabile vaticano delle relazioni con gli Stati e da settembre presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso - lo scambio di missive diventa una buona occasione per fare il punto sui rapporti tra cristiani e musulmani. Sul valore della lettera, Tauran non ha dubbi: «Si tratta di un documento significativo, per il linguaggio e poiché è firmata da musulmani sunniti e sciiti insieme».

Intervistato a caldo dalla Radio Vaticana, lei ha detto: «Potrebbe essere l’inizio di una nuova stagione». Ora sono passati due mesi. Conferma?

È un fatto importante che potrebbe denotare una volontà del mondo musulmano in generale, l’intenzione di un approccio più aperto alla realtà cristiana. È una lettera non polemica, che permetterà di progredire nel dialogo.

Un dialogo passato attraverso Regensburg e la lettera dei 38 intellettuali islamici inviata al Papa un anno fa…

Anche. Ma non la collegherei direttamente con quella prima lettera né con Regensburg.

Perché?

Perché è una cosa in sé un po’ nuova. Per esempio, il testo è ricco di citazioni dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. E le citazioni relative a Gesù Cristo sono prese dai Vangeli e non dal Corano. Sono fatti nuovi.

Per arrivare a questa lettera ci sono stati però molti passi, piccoli e grandi. Quali sono stati, secondo lei, i passaggi decisivi?

Certamente gli sforzi di comprensione reciproca e la ricerca di una convivenza pacifica tra cristiani e musulmani risalgono alla stessa nascita dell’islam nell’Arabia del VII secolo. Lì le tre grandi religioni sono sempre state a contatto. A Medina al tempo di Maometto, ebrei, cristiani e musulmani convivevano. Però è vero che questa convivenza ha avuto alti e bassi e solo uno studio scientifico molto imparziale, fatto da studiosi cristiani e musulmani, potrà stabilire la verità dei fatti e aprire la strada al perdono reciproco, a ciò che si chiama la purificazione della memoria. Venendo ai passi più recenti, la dichiarazione conciliare Nostra aetate, e tutti gli altri documenti che sono seguiti, hanno costituito senza dubbio dei capitoli molto importanti nella storia di questo dialogo interreligioso tra musulmani e cristiani. Negli ultimi anni, molto è stato realizzato. Per me la visita di Giovanni Paolo II in Marocco (1985; ndr) rimane una specie di pietra miliare su questo cammino, in questo pellegrinaggio. Non era mai successo che un Pontefice parlasse a una folla interamente islamica. Ora vediamo Benedetto XVI: cominciando da Colonia (2005; ndr), ha avuto sempre la preoccupazione di alimentare questo dialogo e mantenerlo vivo.

Quali sono le prospettive e quali i punti su cui costruire il rapporto con il mondo islamico? Si parla sempre della ricerca di un fondamento comune. Quale può essere?

Prima di tutto, prima di parlare di un fondamento comune, ogni parte deve essere consapevole della propria identità: chi siamo noi, in cosa crediamo. Una volta che abbiamo fatto questo lavoro di - chiamiamola - identificazione, allora possiamo scoprire che ciò che ci accomuna, come cristiani e musulmani, in realtà è molto. Per esempio la fede nel Dio unico che è creatore, provvidenza e giudice di ciascuno di noi e che retribuirà ogni persona secondo le proprie opere. E che siamo tutti chiamati a obbedire a Dio e a cercare di fare in tutto la sua volontà. Questo è un patrimonio molto importante, a cui possiamo aggiungere il valore della vita e della famiglia. Abbiamo tutte queste cose in comune, ma prima ci deve essere la consapevolezza della propria identità.

Parlando ai membri della commissione teologica internazionale, il Papa ha indicato la legge morale naturale come fondamento di «un’etica universale appartenente al grande patrimonio della sapienza umana». Può essere questo un punto di partenza comune con l’islam?

Partendo dalla legge naturale si può dialogare con tutti gli uomini di buona volontà e con la società civile di oggi. Con i musulmani siamo chiamati a continuare il lavoro iniziato ormai da decenni nel rispetto reciproco, riconoscendo e promuovendo l’innata dignità e gli inalienabili diritti della persona umana, in particolare il diritto alla libertà di coscienza e di religione, che per noi è molto importante. Poi c’è la possibilità di collaborare a favore di quelli che sono in stato di necessità. Perché il dialogo non è solamente teoria, ma deve avere anche un’applicazione concreta, che è questo dialogo delle opere.

Il dialogo è anche politica. Mesi fa, l’ex presidente iraniano Kathami ha incontrato Benedetto XVI; a novembre c’è stata la prima visita di un re dell’Arabia Saudita a un Papa. La Santa Sede percorre anche questa strada per discutere con il mondo islamico...

Il semplice fatto che re Abdallah sia venuto è in sé un avvenimento, ancor più del contenuto. Il Papa e il guardiano dei luoghi sacri dell’islam sono due personaggi sui generis: sono due uomini religiosi e anche due capi di Stato - il Papa in un modo un po’ particolare -. Il fatto che si incontrino è il segno di un riconoscimento e la volontà di fare un po’ di strada insieme. La visita del re dell’Arabia Saudita assomiglia per certi versi alla “lettera dei 138”, perché è un’iniziativa che viene dai musulmani e che fa dire: forse siamo all’inizio di un nuovo capitolo.

In ambito internazionale, Paesi dell’area islamica e Santa Sede si trovano spesso assieme su temi come la famiglia. Si tratta di fatti casuali o questa alleanza può offrire anch’essa un terreno di incontro?

Certamente sulla famiglia e sul rispetto della vita condividiamo un patrimonio di ideali molto simile. Si parla di “alleanza”, ma a me piace parlare piuttosto di convergenza su certe tematiche, senza dimenticare o ignorare che ci sono anche delle divergenze. Non possiamo, infatti, dare l’impressione che sia tutto risolto. È un bene questo approccio positivo sul tema della vita e della famiglia, ma dobbiamo approfondire nella verità le nostre riflessioni per vedere in che cosa coincidiamo e in che cosa siamo diversi. C’è sempre una certa ambiguità che chiede a entrambi, cristiani e musulmani, maggiore chiarezza nel confronto.

Cosa intende per ambiguità?

Faccio un esempio: nella “lettera dei 138” si parla dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. È bello, però questi due concetti non coincidono perfettamente. Il dialogo deve contribuire a chiarire questi concetti.

Quando si parla di rapporto con l’islam viene da chiedersi com’è possibile portare avanti il dialogo e, nel contempo, sostenere i cristiani che in terre a maggioranza islamica vivono oggettive difficoltà e situazioni spesso tragiche…

Prima di tutto, dire chi siamo noi, qual è la nostra identità, avere consapevolezza del tesoro che rappresenta per noi la nostra fede, e nel contempo capire che nell’altro ci sono anche degli elementi di verità che Dio ha deposto nel cuore dell’uomo. Allo stesso tempo, però, occorre dire che la fede non è teoria, ma si incarna in azioni concrete che sono vissute in una comunità di credenti. Queste comunità devono rispettarsi a vicenda e ciò che una comunità chiede per se stessa lo deve concedere all’altra. Se i musulmani in Europa hanno la possibilità di avere un luogo di culto, la stessa cosa deve accadere per i cristiani nei Paesi dove l’islam è maggioritario. Questa è la base della convivenza umana, del diritto internazionale: la reciprocità.

Quindi non concorda con chi dice che il dialogo con il mondo musulmano deve procedere su binari differenti a seconda che ci si rivolga alla realtà islamica che vive in Europa o a quella che vive nei Paesi arabi o del Medio Oriente?

Io penso che il dialogo interreligioso non si vive nella Curia romana. In realtà è vissuto dai cristiani che vivono nei Paesi a maggioranza musulmana come dai musulmani che vivono in tutti i Paesi occidentali. Il dialogo si vive nella vita quotidiana. Certo, quando uno studia il rapporto tra cattolicesimo e islam in Europa deve prendere conoscenza del quadro politico e culturale dell’Europa, quando uno va in Indonesia il quadro è del tutto diverso. Questo dialogo non è fatto da noi qui in Vaticano, è fatto dai cristiani e dai vescovi che vivono la vita quotidiana nei diversi Paesi.

Per questo nella sua lettera inviata ai «cari amici musulmani» per la fine del Ramadan auspica che cristiani e musulmani «vigilino in particolare sulla qualità della loro testimonianza di credenti»?

Il dialogo interreligioso è un pellegrinaggio, un mettere in questione se stessi. Pellegrinaggio nel senso che quando accetto di entrare in dialogo con l’altro accetto di spendere tempo per ascoltarlo, per capire bene chi è, dove va, in che cosa crede. Alla fine gli chiedo: «Dimmi chi è il tuo Dio e come vivi la tua fede». Queste due domande l’altro le pone anche a me. Anche io sono obbligato a dire chi è il mio Dio e come vivo la mia fede nella vita concreta. Il dialogo interreligioso è un mutuo interrogarsi e nel contempo un essere costretti ad approfondire la propria fede. Prima di sentire l’obbligo della domanda all’altro: «Qual è il tuo Dio?», la stessa domanda devo porla a me stesso: «Qual è il mio Dio? Come vivo la mia fede?».

Sempre nella lettera per la fine del Ramadan, lei invita a continuare e intensificare il dialogo «nella sua dimensione educatrice e culturale». Perché ha sentito il bisogno di specificare questa dimensione? Non può suonare come una riduzione?

Non è riduttivo, piuttosto direi che è preciso. Qual è uno dei grandi handicap del dialogo interreligioso? L’ignoranza, genera la diffidenza e quindi spesso la violenza: è una catena. La prima cosa da fare è conoscersi. Se non ci si conosce, la paura nasce inevitabile e vedo l’altro come un pericolo, non certo come un fratello.

Ma se si parlasse di dialogo interreligioso in modo più generico, senza stare a specificare «dimensione educatrice e culturale», non sarebbe più facilitante?

Sarebbe illusorio. Cominciamo a conoscerci sul serio. Una cosa molto importante è che il dialogo interreligioso faccia capire alla gente che, se crediamo che siamo figli dello stesso Padre, dobbiamo vivere come fratelli. Questo non vuol dire che tutte le religioni sono uguali: sarebbe sincretismo, relativismo. Noi diciamo che tutti i credenti, nonché quelli che sono alla ricerca di Dio, hanno la stessa dignità.

© Copyright Tracce n.1/2008

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