8 febbraio 2008
A vent'anni dalla lettera apostolica "Mulieris dignitatem": il senso religioso al femminile
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"Donna e uomo, l'humanum nella sua interezza": questo il tema del Convegno internazionale, organizzato dal Pontificio Consiglio per i Laici, in corso di svolgimento alla "Domus Mariae", a Roma. Anticipiamo una delle relazioni di venerdì 8.
di Cristiana Dobner
Sono grata a chi ha formulato questo titolo perché ha evitato, con molta acribia, una trappola oggi comune: il titolo a due teste: "Le donne e...", e poi di tutto... Inizio quindi specificando proprio i termini del titolo, quasi fossero un vento favorevole. La mia è una riflessione solitaria, nata nella cella di una carmelitana, in ascolto però delle voci della vita, della loro pluralità e dei loro echi, con una lunga gestazione sotterranea dei temi: vigilanza nell'incontro, chinarsi amoroso sulle Scritture, continuità della vita, dell'amore, del rispetto; riflessione pronta a riversarsi nel calore dell'incontro, una "diaconia della verità" (Fides et ratio, 1).
L'intendimento è teoretico e insieme religioso, vuole cioè avviare a scoprire in se stessi le ragioni della domanda filosofica che conduce a provare la condizione umana, cioè a essere donne pensanti da se stesse al femminile superando l'ipoteca androcentrica, già espressa nettamente da Edith Stein: "Forse, nel corso dei secoli, ci siamo assuefatti troppo a un nostro atteggiamento passivo nella Chiesa, concedendo qualche singolare persona (Teresa di Gesù, Hildegard von Bingen, Caterina da Siena e così via), come "eccezione che conferma la regola". Il XX secolo pretende di più!". E noi viviamo già il XXI secolo, ben consapevoli della più grande rivoluzione epistemologica della storia ormai avvenuta.
Guardarsi dentro, entrare in se stessi, guardare "il mondo con occhi spalancati", come insegna Stein, è la porta che, oggi, consente di entrare nel "Castello interiore" delineato da Teresa di Gesù, la mistica spagnola che "è un momento divino della storia degli uomini", ed è affermato da Emile Cioran, e che, secondo María Zambrano, mujer filósofo e auctor, ci porge la scala. Nel crocevia quindi dell'incontro fra la persona e Dio stesso, delle due rispettive libertà, cioè del religioso che qui stiamo affrontando. Parliamo di quella appassionata ricerca della verità coniugata con l'austerità e la semplicità di vita che conferisce a entrambe le carmelitane un'autorità quasi impossibile da imitare.
Perché quindi un'investigazione sull'associazione fra il sentire religioso e la donna e il femminile? Per superare la retrocessione epistemologica subita dal linguaggio religioso al femminile e non lasciare il pensiero nella dualità e nell'esteriorità rispetto all'essere, pur nella consapevolezza della sproporzione fra finito ed infinito, visibile ed invisibile, afferrando - come affermava Max Scheler - quell'indispensabile sensibilità "per i teneri fili che prolungano ogni cosa nel regno dell'invisibile". Sensibilità connotata da alcune peculiarità: capacità di attenzione ai fenomeni; alla loro varietà, ricchezza e specificità; nell'ostinazione a salvarli; ma che insieme si apre però con sensibilità alla trascendenza rispetto alla realtà e apprende la capacità del silenzio per entrare nella vera comunicazione e per non ridurre gli altri ad oggetti.
All'interno di una dimensione particolare della inner life: la percezione del kairòs, di quella concezione di storia che non conosce lo scontato svolgere del tempo, perché questa appartiene solo a chrònos, mentre noi apparteniamo a quel kairòs, che è il Signore Gesù, perché siamo risposta e non parola prima nella tensione creatrice dell'incompiuto disegno di Dio sulla persona umana.
Quali i nodi teorici del rapporto donna/femminile e senso religioso?
Li indico sinteticamente: ridefinire la natura femminile alla luce di nuovi schemi, non usufruendo di quelli decaduti; parlare di natura ed insieme salvare la libertà; non chiudere il dualismo maschile/femminile in una chiusura di genere di disparità ma proiettarsi in una dualità armonica, perché ragione e libertà sono comuni all'uomo e alla donna, all'humanum nella sua interezza appunto; invitare alla verità e alla felicità nella verità e non a una felicità effimera, priva di radici in autentico egotropismo; invitare all'immersione nel reale, come essenziale (María Zambrano insegna che è l'esistenza ad essere metafisica perché vibra di un senso che la fonda e la attende) invitare all'atto ecclesiale, atto di fede; alla visibilità della presenza della donna/femminile nella società e nella Chiesa. Un esercizio critico di kìnesis, di divenienza, riposizionandosi indubbiamente nella dialettica, ma anche di attenzione alle idee guida di tale esercizio.
Vi propongo perciò di attraversare una soglia rovesciata, dall'interno all'esterno, da cui poter seguire, interrogare, vagliare e riconoscere il conatus cognoscendi, "il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione", come si è espresso Benedetto XVI.
Il religioso quale luogo dell'assoluto per la donna quindi? Uscire per entrare. Dove?
La donna, si afferma, è l'unico luogo senza luogo? Lo può trovare?
Oggi, per noi qui riunite, abbozzo la risposta all'interrogativo: quale è il luogo, il tòpos, della donna? Quale il significato di una energeia donna, pulsante ragionante senziente?
Dobbiamo prendere le mosse da quel silenzio in cui Adam era colto dal tardemah e Jahvè creava la donna in una teofania a lei solo nota, donandole quella libertà che, nella relazione della fede, può restituirsi realmente.
La Parola di Dio è chiara, non così però lo è stata la sua incarnazione dai primi secoli in poi, sia da parte dei governi statali sia da parte di quelli ecclesiastici, peraltro in totalità (o quasi) gestiti da uomini, in un'assenza dal sapore dell'esclusione.
Mi riferisco a Galati, 3, 28: "Non esiste più giudeo né greco, non esiste schiavo né libero, non esiste uomo o donna: tutti voi siete una sola persona in Cristo Gesù".
Oggi parliamo di donna ragionante e senziente, senza l'enfasi sul maternage, sulla custodia della casa - non in senso esclusivo ma inclusivo - che rischia di mettere in secondo piano un mutamento in atto nei compiti delle donne che si configurano più come "etica civile che come destino naturale", e si apre a ben altre dimensioni: la professionalità, la relazionalità, la visibilità sociale. Parliamo del suo ruolo dentro la storia con i suoi propri èthoi, che possono qualificarne il con-discepolato: parola che diventa Parola di Dio nel suo celarsi nelle vicende di un popolo, raccontate e rilette al servizio della fede e di una sapienza vitale; maggiore attenzione a una razionalità coerente; simboli della vita quotidiana che palesano una vena di religiosità; via dell'esperienza o "teologia dei santi", appartenente all'universo mentale della donna/femminile, quale possibile via di elaborazione filosofica, quando sia intesa nella chiave di una frequentazione sapienziale che riesca a coniugare la ricerca della verità con il sapore dell'esperienza. Facciamo riferimento all'immediato che si fa spiritualmente sensibile, quale risonanza del sentimento, dell'emozione sensibile, della vibrazione del desiderio; al sapere e al sensibile, in gioco di rimando continuo; alla creazione continua di gesti inediti o antichi, radicati in un pensiero diverso che genera un linguaggio diverso, che non si rinchiuda nell'espressività delle cure materne e della generazione ma da qui si dilati; all'interscambio di amore, pensiero, arte, linguaggio.
Parliamo quindi della creazione di una cultura dell'interiorità fattiva "per", che si rifiuti di ridurre la persona a trama di relazioni storiche, qualificazione di forza-lavoro e classificazioni di sistemi e sotto sistemi. Esiste però realmente il primato della cultura sulla natura (Elisabeth Badinter)? Di quale cultura? Oppure ci troviamo dinanzi a forze sinergiche?
Il soggetto donna/femminile come si manifesta e si definisce?
In una duplice battuta: nel viaggio dell'anima che si consuma e crea nell'avvicinarsi (o allontanarsi) dalla meta che illumina il cammino della vita; "sulle orme di quell'itinerario del pensiero che le filosofe esperiscono, nella ricerca inquieta della propria anima viandante" (Adriana Valerio).
Propongo la mia ipotesi di lavoro, quale humus su cui riflettere.
Mi riferisco a Miriam di Nazaret, la Theotòkos, la portatrice di Dio, come donna e come appartenente al genio femminile; Miriam, madre e sorella, intesi quali termini di relazione, soprattutto nel canto della costellazione in Cristo, in cui appare quale apax, quale modello ideale di una comunione assolutamente piena ma pure di un'uguaglianza differenziata, facendo risplendere le Beatitudini che "diventano tanto più concrete e reali quanto più completa è la dedizione al servizio da parte del discepolo" e della discepola nel "venire al mondo".
Miriam come icona, immagine densa di presenza, tutta santa eppure totalmente umana, donna nella ricchezza della sua femminilità, come Urzelle, cellula primordiale, secondo Edith Stein.
Si impone l'individuazione dell'intreccio di fili paralleli per esprimere l'unicità nativa di ogni sé: la Verità che si manifesta alla coscienza facendo della sua libera appropriazione la forma stessa della sua manifestazione; l'esistenza affettiva come luogo imprescindibile della verità; l'accesso alle forme teologiche della trascendenza: l'accesso del soggetto alla propria ipseità e alla consapevolezza dell'implicazione della verità nella sua attuazione; la forma originaria della coscienza cioè la fede; il desiderio come treccia sciolta del capo di un filo di ferro, un complesso di desideri che configura uno stile di vita. Desiderare significa avere un senso dinanzi a sé, ovvero collocarsi in una situazione che abbia senso ma, proprio desiderando si dota il proprio agire di una direzione; l'elementare universo senso motorio dell'accadere dotato di senso: sinestetico, metaforico, emozionale, affettivo; l'attitudine, connaturata alla maternità, di avere cura e lasciar crescere.
Miriam infatti, la chiave ontologica e insieme esistenziale la offre, perché, dice il Vangelo che ella "conservava" e "confrontava" queste cose nel suo cuore.
Per comprendere e afferrare il portato e la semantica di questi verbi mi servo della tecnica midrashica della harizah, della collana, che si presenta quanto mai interessante e apre prospettive fondanti per comprendere l'opzione del lemma prescelto.
Una sorta di bolla meditativa quindi da cui raccolgo, sotto alcuni profili, le connotazioni emerse in relazione ai due verbi: la harizah ci immette in un clima battagliero, dinamico; il verbo indica lo scontro violento in caso di guerra, di persone che si oppongono e si affrontano; oppure indica estrarre da, ancora un verbo colorato di dinamicità; incitare, cioè smuovere, sempre non un verbo che indichi staticità, una sorta di conserva o di immobilismo ma un verbo di radicale movimento; quando si tratta di uno scontro o confronto verbale è sottesa comunque una dinamica di movimento vivace e opposta oppure, con una sfumatura diversa, l'apportare, cioè aggiungere qualche cosa a una realtà, conferirle una qualifica che non ha immediatamente di suo.
Significato perciò ben lontano da un conservare in un deposito ovattato e inerte, "Miriam, da parte sua, conservava tutte queste cose meditandole in cuor suo", mentre in realtà il versetto lucano (2, 19) è ben più esplicito. Nell'animo di Miriam si agitavano e si confrontavano situazioni ed eventi diversi, sempre in movimento, in una turbolenza che trovava la sua pace ma non la sua piatta spiegazione o acquiescenza.
Il grembo dei verbi quindi è la berith stessa, del rapporto con Jahvè e con se stessi, custodendo e confrontando. Tutte le sfumature indicate ci portano a caratterizzare il "conservava" e "confrontava" di Miriam come postura attenta e vigilante, pensante e custodente, con cura della relazione e degli eventi stessi.
Postura duplice: di stasi precisa, nel conservare quanto avvenuto, e di dinamica attiva, nel confrontare e nell'interrogarsi. Non solo però riflessivo ma già, o per ciò stesso, orante, pensante ed operante nella storia.
Confrontare, soprattutto, significa pensare in proprio, su di sé, sul Figlio, sulla storia che si stava svolgendo, significa capire: Miriam riflette e pensa perché cuore, lev, nel linguaggio della Torah e nel mentalità semita di Miriam, indica il centro della persona, l'interiorità, la sua mente, il suo animo, la sua coscienza, soprattutto la libertà, con cui essa dispone di sé, orientando verso un fine determinato tutta la propria intelligenza, affettività e sensibilità.
Una postura di donna/femminile, perché esprime la relazione fra soggetti, in cui viene però anche indicata l'efficacia purificatrice del contemplare quanto non si riesce a capire nel "conservare" e nel "confrontare", perché il tempo ancora non è venuto per il dispiegarsi del disegno del Padre.
"Conserva" e "confronta" è un cammino pensante, tracciato per la donna/femminile, come desiderio di spiegazione, di ricerca, di cambiamento, di libertà; cammino assoluto perché cammino pensato da sé e non riversato su di sé dall'uomo, espressione raziocinante ma anche sfera in cui si elabora la modulazione del sentire: immaginazione, memoria, intimità biografica, sensibilità affettiva. Il presupposto, ma anche l'esito, di ogni cultura pensante.
Una memoria agente quella di Miriam nel "conservare" e "confrontare", per esercizio di intuizione, cioè conoscenza, percezione, ovvero sentimento ed esaltazione nella celebrazione della lode a Dio, nell'epìklesis, nell'invocazione dello Spirito Santo.
Ed è già una sessuazione del discorso, tipico di una donna, Miriam, che al femminile si pone dinanzi a quanto ineludibilmente gli eventi manifestano; discorso non più chiuso nella figura della coscienza, dello spirito e del popolo di Israele, ma da questo promanante a tutti.
Vi si possono leggere diversi interrogativi che delineano la morfologia e l'identità nelle due memorie in tensione: sulla sedimentazione e nella memoria genealogica femminile di Miriam con il suo passato, presente, avvenire; sulla sua memoria individuale che avrà esercitato con uno strabismo che sapeva cogliere anche gli angoli morti dell'esistenza quotidiana dei lunghi anni di Nazaret; sulla contemplazione dando vita all'incontro; sulla ricerca del dato irriducibile, l'originario, in quel Figlio che le viveva accanto.
La libertà femminile del pensiero, del "conservare" e "confrontare", per evidenziare un umanesimo del limite e l'apertura all'ulteriore, declinato al femminile, troppo spesso sugli orizzonti abbassati di un funzionalismo autoreferenziale. Umanesimo di gender che ponga al centro la relazionalità, l'intreccio uomo/donna, quale strumento multi e interdisciplinare per arricchirsi di una pluralità armonica di prospettive e di sensibilità tra il proprio sé e il mondo.
Una coscienza femminile nella costruzione di sé, quale creatrice di vita, che consente di passare da una carica negativa a una positiva quando diviene porta per la coscienza vera.
In questo radicamento in Miriam mi pare giunto il momento di estrinsecare, seguendo Edith Stein, ma anche procedendo in avanti, l'assoluto della donna/femminile su cui verteva l'interrogativo di apertura.
La natura femminile, per Stein, è connotata da alcune posture e una peculiarità specifica, autentica chiave di volta, che si sintetizza in una breve frase: "Chi guarda a Lui (Cristo) e a Lui si dirige, ha davanti Dio, l'archetipo di ogni personalità e il compendio di tutti i valori".
Ne puntualizzo ora le posture: particolare ricettività per l'agire di Dio nell'anima e la consegna a Cristo; lo stare di fronte; la donna riceve gli stessi doni dell'uomo e la possibilità di svolgere lo stesso lavoro come lui - con lui, insieme, o al suo posto; la cura empatica; il desiderio naturale di dare interamente se stessa ad un altro; la capacità corporea sessuata; la totalità e la determinazione; la purità assoluta cioè libertà dai falsi legami; l'obbedienza e il servizio; la partecipazione alla vita professionale.
Come si ritorna all'originaria vocazione dell'uomo e della donna, quale humanum nella sua interezza? Stein sostiene che si può raggiungerla solo "nel ritorno a un rapporto di figli verso Dio".
Si concreta: nel luogo del singolare e dell'universale insieme, nel luogo meridiano: nella relazione dell'una, donna/femminile, con l'altra e con Miriam, come radice profonda; nel trovare in sé, nel gesto interiore, nella postura profonda esistenziale della prassi, nel campo multiforme dell'agire, in cui si radica il pensiero filosofico, sul confine tra tempi e mondi diversi, nell'invocazione di senso che è richiesta di salvezza; nel creare momenti di incontro, punti, intese, attese, saluti, ben conoscendo e battendo la propria strada e facendo della propria vita un progetto itinerante rivolto al Padre in Gesù Cristo.
In sintesi: nell'intelligenza agapica che è cosciente di ricevere il dono dello Spirito e di lasciarsene riplasmare fino a divenire dono vivente, agàpe stessa, mysterium dell'amore, il ritmo segreto dell'azione e della contemplazione per una cultura dell'interiorità fattiva "per", forza donna/femminile trasformante l'humanum nella sua interezza, espresso ancora una volta magistralmente da Stein: appartenere a Dio nella più libera consegna dell'amore, e servire, non è solo la chiamata di alcuni eletti, ma di ogni cristiano: consacrato o non consacrato, uomo o donna, ciascuno è chiamato alla sequela di Cristo. E, nella misura in cui avanza su questa via, diventerà più simile a Cristo e, poiché Cristo incarna l'ideale della perfezione umana, in cui sono eliminate tutte le unilateralità e tutti i difetti, unisce i tratti della natura maschile e femminile, le debolezze vengono eliminate, i suoi fedeli seguaci allora vengono innalzati sempre più al di là dei confini della natura.
(©L'Osservatore Romano - 8 febbraio 2008)
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