23 febbraio 2008

La fede non è un’ideologia (Vladimir per "Europa")


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La fede non è un’ideologia

VLADIMIR

Se i numeri non sono opinioni, anche le statistiche contano. E le rilevazioni che riguardano i cattolici di questo paese che ogni domenica vanno regolarmente a messa forniscono i dati statistici più costanti degli ultimi due decenni.
Finito il grande freddo degli anni Settanta-Ottanta, quelli seguiti al radicale mutamento culturale dettato dalle mode ideologiche post sessantottine, le stagioni vissute dalla Chiesa italiana hanno riportato alla pratica religiosa molte persone.
Attualmente, ogni domenica, sono tra i sette e i nove milioni gli italiani che frequentano parrocchie e altri luoghi di culto. Immaginare che il loro principale interesse sia quello di leggere la stampa cattolica è una pia pratica che, analizzando i media, appare ormai cara solo alla devozione professionale dei vaticanisti e di qualche altro abituale osservatore.
Una realpolitik dovrebbe ormai spingere tutti a osservare quanto anche i cattolici praticanti, come il resto dei loro compatrioti, siano seriamente intenti a leggere, e discernere, ogni possibile racconto sociale, preoccupati solo di giudicare se e quanto sia conforme alla realtà.

Nessun cattolico sembra desideroso di sentir suonare la tromba della ritirata per tornare ad attestarsi sulle comode posizioni d’antan.

Anzi, se proprio vogliamo parlare, in vista dell’appuntamento elettorale di aprile, di quale par condicio in salsa ecclesiale parlano gli elettori che vanno in chiesa dovremmo necessariamente riferirci al recente sondaggio effettuato tra i lettori di Famiglia Cristiana, i quali hanno risposto manifestando, con proporzioni quasi identiche, un’opinione tendenzialmente negativa sul centrosinistra e una quasi totale mancanza di entusiasmo per il centrodestra. E sui leader, in modo apparentemente incongruo, preferirebbero lasciare al palo Berlusconi e scommettere su Veltroni.
Questa, forse, è la stessa chiave di lettura per la distonia che viene osservata, e anche enfatizzata, dagli altri media ogniqualvolta i due organi di stampa più importanti del nostro paese, l’episcopale Avvenire e il vaticano Osservatore romano, sembrano confliggere nelle loro analisi politiche.
Negli ultimi quindici anni, ogni volta che un uomo politico, oppure un partito, ha tentato di umidificare le urne con l’acqua lustrale di qualche palazzo clericale, il mondo ecclesiale italiano ha sempre risposto dicendo che il voto dei cattolici non appartiene a nessuno. E in questa risposta gli elettori credenti sono sempre stati incoraggiati da un magistero pontificio che ha scritto molte pagine per spiegare quanto il voto dei cattolici debba essere esigente perché deve saper introdurre nel confronto politico l’attenzione, e la proposta cristiana, sui grandi temi etico-religiosi e sociali. Di conseguenza, i due giornali cattolici concorrono, ciascuno a suo modo, a evitare che i cattolici continuino ad esercitarsi nell’ormai inutile esercizio dell’assemblaggio elettoralistico delle diversità. E stanno aiutando la grande, e corale, riflessione con la quale gli elettori credenti del nostro paese tentano di tradurre politicamente le grandi attese morali e sociali sulla intangibilità della vita umana, la scuola libera, l’impiego ragionevole della procreazione assistita, la tutela della famiglia e la completa applicazione della legge194, anche nella parte che riguarda la prevenzione dell’aborto.
In fondo forse la vera eredità degli ultimi quindici anni di vita del cattolicesimo italiano consiste soprattutto in quel costante insegnamento episcopale che, anno dopo anno, ha ricordato ai credenti del nostro paese che la “questione cattolica” dell’Italia contemporanea, anche dentro le vicende politiche che abbiamo finora vissuto, è innanzitutto un problema di cultura. Per questo, come può essere facilmente notato negli scritti di analisi politica apparsi sia su l’Avvenire sia su l’Osservatore romano, il problema della qualità delle persone chiamate a incarnare i vari progetti politici dentro i quali i cattolici si vogliono coinvolgere appare, pur nelle differenze degli approcci, una questione cruciale e prioritaria.

Perché il credente che opera nella vita pubblica deve essere in grado (sono parole dell’allora cardinale Ratzinger) di non «teologizzare la politica». Ma anche di impedire che altri, come sembra accadere con forza, e non solo in Italia, negli ultimi anni, si adoperino per «ideologizzare la religione».

Forse è soprattutto pensando a questo pericolo, e alla sua tragica proiezione nella geopolitica del nostro e degli altri continenti, che le voci cattoliche più autorevoli stanno reiteratamente ripetendo che la fede cristiana non può essere identificata, né tanto meno contiene, alcuna sintesi politica concreta. E che la sua ricchezza, e le sue conseguenze, per l’attività politica sono riassunte nelle parole libertà e coerenza. E in nient’altro.

© Copyright Europa, 23 febbraio 2008

Vedi anche:

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Sconfortante questa intervista di Veronesi!
R.

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