15 settembre 2007

Avvenire: il motu proprio mira ad accogliere chi vuole ritornare in comunione con il Papa ed a impedire che altri siano tentati dallo scisma


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Giuseppe Busani

«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove del deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?» (Lc 15,4). La prima delle tre parabole della misericordia, narrate al cap. 15 del Vangelo di Luca, costituisce l'icona biblica con la quale leggere in modo corretto il recente Motu proprio sull'uso della liturgia romana antecedente alla riforma del Concilio Vaticano II, che proprio in questi giorni entra in vigore.

Il motivo principale che ha mosso Benedetto XVI è il ristabilimento della comunione ecclesiale con le comunità aderenti allo scisma messo in atto da monsignor Lefebvre. Molti fedeli che avevano seguito il vescovo scismatico per un particolare legame con la forma rituale precedente avvertono oggi il disagio della non piena comunione con il successore di Pietro. Altri ancora nella Chiesa cattolica rischiano, a motivo di questo stesso legame, di abbandonarne la piena comunione.

Spiega infatti il Papa: «Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa». Un obiettivo primario che era ben individuato nelle parole che il cardinale Camillo Ruini scriveva su Avvenire all'indomani della pubblicazione della Lettera papale: "Solo ponendosi su questa lunghezza d'onda si può cogliere davvero il senso del Motu proprio e metterlo in pratica in maniera positiva e profonda".
L'intervento del Papa non può dunque essere strumentalizzato ai fini di un giudizio negativo sulla riforma liturgica conciliare, il cui benefico influsso per la vita della Chiesa è stato da ultimo riconosciuto nella recente esortazione apostolica Sacramentum caritatis. Per questo motivo, Benedetto XVI precisa che il Messale Romano promulgato da Paolo VI è l'unica espressione ordinaria nella legge della preghiera della Chiesa cattolica di rito latino (Summorum Pontificum, 1). È però ammessa una forma extra-ordinaria che, a determinate condizioni, si esprime attraverso l'uso del Messale Romano nell'edizione del 1962. I due Messali costituiscono due forme dell'unico rito, che meritano rispetto e venerazione.
Non sono infatti da contrapporre, in quanto il Messale di Paolo VI si pone in continuità con l'antica tradizione, dalla quale ha assunto molti elementi rituali e gran parte del patrimonio eucologico ritenuto perennemente valido per la Chiesa. Infatti «Le norme liturgiche del Concilio di Trento sono state, su molti punti, completate e integrate dalle norme del Concilio Vaticano II; il Concilio ha così condotto a termine gli sforzi fatti per accostare i fedeli alla Liturgia» (Ordinamento Generale del Messale Romano, n. 15). Una lettura del Concilio che è la stessa presente nella citata Sacramentum caritatis: «Si tratta di leggere i cambiamenti voluti dal Concilio all'interno dell'unità che caratterizza lo sviluppo storico del rito stesso, senza introdurre artificiose rotture» (n. 3).

Il Papa si riferisce qui alla necessità di una ermeneutica della continuità per una corretta lettura del Concilio, proposta nel noto discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005.

La compresenza della duplice forma dell'unico rito dà dunque visibilità alla continuità della tradizione della Chiesa in materia liturgica, non potendosi più opporre le due forme, e rendendo ancor più visibile come la riforma conciliare si inserisca nell'alveo della tradizione.

Il Motu proprio rappresenta indirettamente anche un utile richiamo a quanti hanno inteso interpretare la riforma liturgica come un adattamento della Chiesa alle modalità della comunicazione odierna, dimenticando che il problema della liturgia non è adattarsi agli uomini, ma avvicinarsi a Dio.

Lo ricordava nei giorni scorsi a Vienna lo stesso Benedetto XVI: «Noi stiamo davanti a Dio: Egli ci parla e noi parliamo a Lui. Là dove, nelle riflessioni sulla liturgia, ci si chiede soltanto come renderla attraente, interessante e bella, la partita è già persa».

Come sarebbe persa se quest'ultimo provvedimento papale venisse interpretato in termini conflittuali. Per questo si rende necessaria un'applicazione attenta delle condizioni descritte dal Motu proprio e dalla Lettera che lo accompagna.

Solo un accurato discernimento di queste condizioni potrà permettere al cammino liturgico delle comunità ecclesiali di trarre profitto da questo delicato ma promettente passaggio. Il tutto - ovvio - nella carità e nella verità.

© Copyright Avvenire, 15 settembre 2007

10 commenti:

Blog creator ha detto...

Mons. Busani, che per alcuni anni è stato a Roma Direttore dell'Uff. Liturgico azionale, piacentino (come me) può ben esprimersi sull'argomento.

In generale, traendo dalla Catechesi del Pontefice sugli Apostoli, si può ben leggere 'anche' il Motu secondo questa efficacissima parola:
La Tradizione è la continuità organica della Chiesa [...] possiamo dunque dire che la Tradizione NON E' trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione E' il fiume vivo che ci collega alle ORIGINI, il fiume vivo nel quale SEMPRE le origini sono presenti. [...]

Ce nè da meditare! E da studiare!

francesco ha detto...

ahimè! noto con disappunto che si continua a contrapporre all'ermeneutica della discontinuità una ermeneutica della continuità... eppure il Papa ha parlato non di questo, ma di ermeneutica della riforma! che non è precisamente la stessa cosa...
il Papa non è un immobilista, un nostalgico del passato, ma un uomo di fede che vede la Tradizione come una realtà dinamica...
peccato questo scivolone grossolano... in un pezzo, tra l'altro, ampiamente condivisibile!

Anonimo ha detto...

ahimè noto che Francesco cavilla sui termini e non va al nocciolo della questione. L'articolista di Avvenire fa ben capire che il Concilio Vat.II ha riformato e completato le disposizioni del Tidentino, quindi mi sembra chiaro che s'intenda leggere il Concilio con un criterio di riforma. Il Papa aveva detto nel famoso discorso a cui accenna anche don Francesco:« da una parte c'è "l'ermeneutica della discontinuità e della rottura”; ... Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.» Anche don Francesco è impreciso perché il Papa parla di ermeneutica del rinnovamento nella continuità. E se dopo 40 anni di riforme liturgiche imposte da "tecnici del settore" il Papa ha ribadito la validità dell'antico rito è segno che sta riforma non è stata fatta nella continuità della tradizione, ma ha creato una rottura.

francesco ha detto...

caro don gianluigi...
mi stupisco di come un membro della Chiesa gerarchica, come immagino che tu sia, abbia delle idee così confuse e ostili rispetto alla riforma liturgica operata dopo il Concilio Vaticano II... che certe cose le dicano i lefreviani o qualche cristiano poco formato, posso pure starci... che lo dica un ministro ordinato è una cosa grave...
per il resto... basta leggere il mio post per comprendere che mi accusi di cose inesistenti
francesco

euge ha detto...

Caro Don Luigi la ringrazio per il suo intervento chiarificatore per quanto rigurada l'articolo di Avvenire. Purtroppo,come lei stesso può constatare, nonostante il suo chiarimento che non da adito a dubbi, c'è sempre qualcuno che continua suo malgrado, a sostenere che chi sposa la sua tesi, cioè quella in base alla quale la riforma operata dopo il Concilio Vaticano II non è stata concretizzata nella continuità della tradizione ( tesi peraltro ripresa da Sua Santità) o è un lefevriano inguaribile oppure un cristiano ignorante e sprovveduto.
Beh io dico che finchè Don Francesco si rivolge ad uno di noi in questi termini è già segno di arroganza e di presunzione nel conoscere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato ma, che si rivolga a lei in questi termini definendolo ostile alla riforma del Concilio come quealche vaticanista di nostra conoscenza definisce uno schiaffo al concilio il Motu Proprio del Papa è una cosa veramente grave.
Le chiedo scusa anche per Francesco che ha mal digerito questo Motu Proprio, continuando ad ogni piè sospinto a manifestare il suo dissenzo ma, in maniera arrogante ed insostenibile.
Eugenia

Anonimo ha detto...

Caro don Francesco tu mi rimproveri: "che certe cose le dicano i lefreviani o qualche cristiano poco formato, posso pure starci... che lo dica un ministro ordinato è una cosa grave..." ciò mi fa piacere, perché queste cose le ha dette il Papa e quindi sono in buona compagnia. Leggi la sua prefazione al libro di Gamber: "La Reforme liturgique en question 1992, p.6: La réforme, dans sa réalisation concrète, s'est éloignée toujours davantage de cette origine. Le résultat n'a pas été une réanimation mais une devastation.

francesco ha detto...

caro don gianluigi...
mi spiace che usi in maniera impropria frasi del Papa... che parla delle realizzazioni fattuali della riforma liturgica e non della riforma stessa che - perfino nella lettera di presentazione del Summorum loda e sostiene in maniera forte...
comunque spero che tu possa trovare maggiore sernità di argomentazione e viva con maggiore fedeltà alla Chiesa il tuo ministero

Anonimo ha detto...

Gentile don Francesco, sono sconcertato dalle tue affermazioni che entrano nel merito della mia fedeltà al magistero della Chiesa. Prima di parlare dei documenti del Papa, forse dobbiamo rileggere il Vangelo: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati [Lc.6,37]Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello [Lc.6,41]

Anonimo ha detto...

Bella questa scaramuccia! Noto con piacere che finalmente Don Francesco ha trovato pane per i suoi denti!!!

euge ha detto...

Hai ragione Giampaolo!!!!!!!!!!!