3 aprile 2008

Carità e speranza nelle encicliche di Benedetto XVI. Un riassetto teologico dell'intelligenza cristiana (Osservatore Romano)


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Carità e speranza nelle encicliche di Benedetto XVI

Un riassetto teologico dell'intelligenza cristiana

di Alain Besançon
Institut de France

È possibile intuire, nell'opera di Benedetto XVI, un piano d'insieme che conferisca un'unità al suo Pontificato? Tre anni sono un lasso di tempo troppo breve per stabilirlo. Circostanze nuove possono imprimere al suo agire un corso inatteso. Tuttavia mi sembra che un disegno profondo esista, e lo definirò così: "Il riassetto teologico dell'intelligenza cristiana nella Chiesa". Continua così l'opera del suo predecessore. Non lo fa solo per il bene della Chiesa, ma per il bene di tutta la comunità umana.
La vita spirituale cristiana impone la permanente ricerca della verità. Una fede che non cercasse l'intelligenza deperirebbe e l'intelligenza degenererebbe in automatismo. La Chiesa cattolica ha affrontato diverse prove negli ultimi secoli: la sfida delle Riforme, la sfida della scienza moderna, la sfida della secolarizzazione. Ha fatto fronte a tutto ciò ma, volendo proteggere il gregge, non l'ha sempre incoraggiato a pensare da solo. Un'istituzione come l'Indice, fondata nell'urgenza delle catastrofi del XVI secolo, è stata, in definitiva, una buona idea? Non è inquietante il fatto che di fronte a personalità della statura di Rousseau, Kant e Hegel, il pensiero cattolico non abbia trovato al suo interno un giovane David munito di una buona fionda intellettuale? Il ripiegamento sulla protezione è talvolta prevalso.
Nei due secoli scorsi, la Chiesa non è stata solo combattuta frontalmente, ma è stata anche "tentata" da imitazioni perverse di se stessa. La più grave è stata la grande ondata del comunismo leninista di cui ci si è chiesti per un istante se non avrebbe sommerso il mondo intero. I Papi hanno resistito. Non hanno ceduto nulla del deposito loro affidato.

Tuttavia, dinanzi alla sfida comunista, correnti molto attive nella Chiesa si sono messe in posizione di concorrenza. Poiché il comunismo pretendeva di essere "sociale", occorreva che la Chiesa si mostrasse ancora più "sociale". Nella vaghezza delle nozioni il discernimento non operava più. La religione cristiana rischiava di fondersi con la religione umanitaria.

Benedetto XVI non tollera le confusioni intellettuali.

Nella religione umanitaria l'uomo pretende di essere migliore di Dio. Vi sono sciagure, punizioni che Dio consente, cioè non impedisce che accadano. Ebbene, l'uomo migliore di Dio, dotato di un amore più grande, più universale, non le ammette.
La parola amore viene allora svilita, utilizzata in tutte le salse per giustificare tutte le pratiche sessuali, per impedire di riconoscere un nemico in quanto nemico, per partecipare ai progetti che la religione umanitaria crea ogni momento.
Questo falso amore dispensa dal pensare. Fa vivere nell'emozione. La virtù della prudenza viene dimenticata.

La prima enciclica di Papa Benedetto XVI ha come fine principale quello di dissipare questa confusione. La Deus caritas est definisce la differenza fra l'amore cristiano, la caritas, l'agàpe, o ancora la philìa, l'amicizia, e, dall'altro alto, l'èros. Non per condannare l'eros, indispensabile alla vita, ma per porre l'uno e l'altro, chiaramente distinti, in compenetrazione e in unione. Traducendo sistematicamente con "amore" la parola "carità" si rischia di svilire quest'ultima e si erotizza la parola amore, conformemente al clima della nostra epoca.

La carità, scrive il Papa, non è per la Chiesa un'attività di assistenza sociale che si può anche lasciare ad altri, ma "è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza". "Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico (...) ma è l'attuazione qui ed ora dell'amore di cui l'uomo ha sempre bisogno".

Non si può separare in modo più netto il compito caritativo proprio della Chiesa e l'ideologia umanitaria di provenienza socialista, o questa inclusione obbligatoria nell'uguaglianza indifferenziata caratteristica dell'ambito umanitario democratico contemporaneo.

La nuova enciclica, Spe salvi, affronta temi simili da un'angolazione diversa, a partire da un'altra virtù teologale. Di fronte al nichilismo disperato di oggi o all'utopismo sregolato di ieri, cos'è la speranza e, parlando come Kant, che cosa ci è permesso di sperare?

Questa lettera enciclica è di una grandissima ricchezza. Seguirò solo una delle sue linee principali.

La speranza, ci istruisce il Papa, è contigua alla fede. Nelle scritture, le due nozioni sono intercambiabili. La speranza - o, come il Papa preferisce dire, la "grande speranza" - non si concentra su un progetto particolare. E ancora meno su un progetto rivoluzionario; Cristo non è Spartaco, né Bar Kochba.

Essa si fonda sulla certezza che l'uomo non è abbandonato, che una Persona lo osserva con sguardo benevolo. Tuttavia il Vangelo non è solo "informativo" perché ci insegna una "buona novella", questa sicurezza, ma è anche "performativo" poiché ci offre fin da ora un bene obiettivo, un fatto che cambia la vita. La speranza non è solo un'attesa, essa si assapora nel presente. Il cristiano, che appartiene alla società di questo mondo, gode della cittadinanza di un'altra società, di un'altra Città, direbbe sant'Agostino, di cui anticipa fin da ora la realtà.

Il cristiano attende la vita eterna. Tuttavia, ed è un punto importante dell'enciclica, non sa cos'è. Noi sappiamo solo che deve esistere qualcosa verso la quale ci sentiamo sospinti. Sappiamo e ignoriamo allo stesso tempo: docta ignorantia.
I filosofi pensavano di salvarsi da soli. La speranza cristiana, invece, è comunitaria. Concerne l'intero popolo. "Essa presuppone l'esodo dalla prigionia del proprio "io"".
Nei tempi moderni, la fede-speranza cristiana si è trasformata. Bacone, correlando la scienza e la prassi, ritiene che l'uomo potrà ripristinare il dominio sulla natura smarrito con il peccato originale. L'idea del progresso è nata.
Fondandosi su una fiducia nuova nella ragione e nella libertà, i Lumi sperano di edificare una nuova comunità perfetta. Così Kant definisce la "fede razionale" che, avendo trasceso la fede della Chiesa, fonda il nuovo "regno di Dio". Eppure, curiosamente, Kant ha l'intuizione di un possibile malfunzionamento di questo regno, analogo a quello che Vico denominava "la barbarie della riflessione". Prima di Newman, prima di Solov'ëv, egli prospetta come possibile la venuta dell'Anticristo. Ecco sopraggiungere il tempo di Marx dove l'avvento di un mondo perfettamente buono proviene non solo dalla scienza, ma anche dalla politica e dalla rivoluzione. Lenin credeva di sapere come sarebbero andate le cose dal momento in cui il potere sarebbe stato preso. L'idea dell'ignorantia non lo sfiorava. La "costruzione" alla cieca del migliore dei mondi dura settant'anni. Lascia solo una "distruzione desolante".
Il progresso esiste, ma resta ambiguo. La cosa peggiore sarebbe ignorarne i limiti. Il benessere del mondo non può essere garantito da strutture migliori, come supponeva una certa teologia della liberazione. Il regno plenario del bene non esisterà mai in questo mondo. La sua ricerca è l'oggetto di ogni generazione, e sarà sempre da ricominciare. Questa enciclica pone i limiti a ciò che "è permesso di sperare".
"Non è la scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore". Per quanto giustificate siano le numerose e diverse speranze che possono nutrire gli uomini, questi ultimi hanno bisogno di una speranza che "va al di là", e che è Dio stesso. Quando la speranza, per grazia, viene donata loro, scoprono che racchiude anche il prossimo e il suo servizio. Questa è la "Grande Speranza".
La speranza si impara, si acquisisce e si esercita. La sua scuola è la preghiera, la sua pietra di paragone è nel modo di accogliere la sofferenza, la sua autenticità si dimostra nella compassione, ed eventualmente nel martirio. L'esigenza di giustizia fa concepire la possibilità dell'inferno, e anche l'idea di purgatorio e di preghiera per i defunti.
È pertanto l'insieme del dogma cattolico che il Papa ricostruisce a partire dalla speranza, poiché nella cattedrale teologica si entra da varie porte. Benedetto XVI conclude con un'altissima preghiera a Maria, stella della speranza.

Ho tracciato solo un profilo di questa enciclica. Benedetto XVI l'ha scritta secondo la sua natura e il suo talento: quello di un grande professore, di un maestro. Essa si presenta come una lezione magistrale, dall'aspetto un po' fuori dal nostro tempo, ma incentrata sugli errori e i pericoli che oggi minacciano la fede.

Si potrebbe forse spingere oltre il dibattito su Marx, cattivo osservatore della realtà del suo tempo, teorico confutato, il cui ruolo nello sviluppo e nella diffusione del comunismo è a mio parere sopravvalutato. Il comunismo leninista, che ha distrutto tanta materia e tanta natura, è, piuttosto che un materialismo, una dialettica idealistica che permette di affermare che quanto è non è; e quanto non è, è. Ma che gioia arreca allo spirito questa grande lezione così chiara, così erudita, così sapiente! Gli excursus filologici, la scelta delle citazioni di Ambrogio, Agostino, Ilario, Massimo, compongono un rosario di rare meraviglie.

Questo Papa preferisce prendere i punti di riferimento dalla sua cultura natale, da Lutero a Horkheimer: gioisco come francese di questa superba rinascita del grande pensiero tedesco.

Il discernimento, il giudizio separatore del vero e del falso: questo è il compito più importante del Sommo Pontefice. La sua prima enciclica chiariva il rapporto fra le diverse forme dell'amore umano e la virtù teologale della Carità. La seconda sbroglia l'intricata relazione fra le speranze legittime o illusorie che l'uomo moderno nutre e la virtù soprannaturale della speranza, la "grande speranza" che le fonda o permette di rinunciarvi.

Nella logica di queste due encicliche, se ne attende una terza, che verterà sulla fede. Il mondo moderno produce il relativismo che il Papa detesta poiché è una rinuncia alla verità.

In materia religiosa, il relativismo formula un'equivalenza fra le religioni. Cancella la distinzione fondamentale fra il credo, semplice virtù morale di "religione", e la "fede", virtù soprannaturale la cui "materia" è Dio stesso. Nel loro avvicinamento così difficile al dialogo tra le religioni, i cattolici, ad esempio, esitano ad attribuire all'islam la fede, o solamente la credenza. Attendiamo con fiducia l'enciclica che opererà il discernimento su questo punto. Ma forse Benedetto XVI ha altri progetti.

(©L'Osservatore Romano - 4 aprile 2008)

Bellissimo articolo!
R.

8 commenti:

Giacomo Galeazzi ha detto...

Benedetto XVI non tollera le confusioni intellettuali, scrive giustamente Alain Besançon. In effetti, già in una risposta a Vittorio Messori nello storico "Rapporto sulla fede", Joseph Ratzinger taglia alla radice ogni possibilità di equivoco: uno solo è il Salvatore. Mi sembra utile richiamare le sue parole: "Qualcuno ha cominciato a chiedersi:"perché disturbare i non cristiani inducendoli al battesimo e alla fede in Cristo, visto che la loro religione è la loro via di salvezza nella loro cultura, nella loro parte del mondo?". In questo modo si è dimenticato tra l'altro il legame che il Nuovo Testamento instaura tra salvezza e verità, la cui conoscenza (lo afferma Gesù in modo esplicito) libera e quindi salva. O, come dice san Paolo: "Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità". La quale verità, prosegue subito l'Apostolo, consiste nel sapere che "uno solo è Dio e uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù che ha dato se stesso in riscatto per tutti " (1 Tim 2, 4-7). È quanto dobbiamo continuare ad annunciare -con umiltà ma con forza- al mondo d'oggi, sull'esempio impegnativo delle generazioni che ci hanno preceduti nella fede". Ecco, così ha fatto Giovanni Paolo II, così fa Benedetto XVI. Nella preziosa miniera del blog di Raffaella sul pontificato di papa Ratzinger si possono rintracciare decine di altri scritti e discorsi che illuminano in modo altrettanto chiaro e inequivocabile l’assoluta uniformità d’impostazione dei due pontificati. La linea del Wojtyla “antropologo” risulta perfettamente integrata e complementare (lungo quasi un trentennio) con quella del Ratzinger “teologo”. Una simbiosi assoluta e mirabile tra due giganti del cattolicesimo del XX secolo che si sono "divisi i compiti" fin dall’inizio degli anni Ottanta. Personalmente sono convinto che un giorno gli storici interpreteranno questi due straordinari pontificati come un unico, provvidenziale fiume che, confluendo e differenziandosi negli ambiti a seconda dei tratti, ha irrorato di santità e profezia la Chiesa, proiettando pienamente la cattolicità nel Terzo millennio e consentendole di respirare ossigeno a pieni polmoni.
giacomo galeazzi

Anonimo ha detto...

Grazie del contributo e dei complimenti :-)

mariateresa ha detto...

però...

Anonimo ha detto...

Ehi, complimenti, Raffella! Buona giornata Carla

Luisa ha detto...

Questo commento di Giacomo Galeazzi mi era sfuggito, ho appena scritto un commento da Tornielli ringraziandolo .
Ammetto senza problemi che sono positivamente sorpresa da questi interventi e articoli di Galeazzi, che ha scritto fra le più belle parole su Benedetto XVI unendolo al suo amico Giovanni Paolo e di questo gli sono grata.
Galeazzi e stato talvolta duro e noi lo abbiamo criticato con altrettanta forza e ardore.
Come ho scritto da Tornielli, mi dico che forse ci sono voluti questi 3 anni per sciogliere certi nodi e permettere a taluni di finalmente lasciare esprimere i sentimenti positivi verso il nostro Papa
Benedetto e rinunciare, spero definitivamente, ad ogni confronto sterile e falso.

Anonimo ha detto...

Già, però....
Dove sono brioches e cappuccino?
:-)

Anonimo ha detto...

Gia', cara Mariateresa, sgancia il bottino...
Ho gia' il tovagliolo in mano :-)
R.

mariateresa ha detto...

beh, ragazze visto l'andazzo, quasi quasi offro anche l'aperitivo e i salatini.
In caso di qualche altra grossa piacevole novità sono disposta ad arrivare anche alle lasagne.
Ma deve essere grossa.