12 luglio 2007
Messa tridentina e documento della Congregazione per la dottrina della fede: l'analisi di Massimo Introvigne
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di Massimo Introvigne
Il documento della Congregazione per la dottrina della fede su «alcuni aspetti della dottrina sulla Chiesa» reso pubblico martedì rappresenta la fase due dell’offerta di Benedetto XVI ai seguaci di quella che ha definito la «spaccatura» di monsignor Marcel Lefebvre, l’arcivescovo francese scomparso nel 1991 e capofila dei cosiddetti tradizionalisti. La prima fase era stata il motu proprio di sabato scorso, che liberalizzava la celebrazione della Messa nel rito detto di san Pio V e in lingua latina: ma la questione tradizionalista va al di là della liturgia.
Il disagio dei tradizionalisti nei confronti del Vaticano II ha infatti il suo centro nelle nozioni di libertà religiosa e di ecumenismo. Secondo monsignor Lefebvre, dopo il Concilio la Chiesa cattolica predicherebbe la tesi secondo cui tutte le religioni sono più o meno uguali, con un progressivo scivolamento verso il relativismo. La prova di questo assunto consisterebbe nel fatto che nella costituzione «Lumen gentium» del Vaticano II si afferma al numero 8 che la vera Chiesa «sussiste nella Chiesa cattolica», mentre secondo la dottrina tradizionale l'unica vera Chiesa «è» la Chiesa cattolica. Inoltre prima del Vaticano II, secondo i tradizionalisti, solo la Chiesa cattolica era chiamata «Chiesa» mentre ora sono dette «Chiese» anche quelle ortodosse orientali, separate da Roma, e talora gli stessi protestanti.
Il nuovo documento ora precisa però che il Vaticano II «né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato» la dottrina tradizionale sulla Chiesa. La vera Chiesa «sussiste» - cioè si manifesta - unicamente nella Chiesa cattolica, mentre «è presente» - ma parzialmente, attraverso «elementi di santificazione e di verità» che sono però misti a «carenze» - nelle Chiese e comunità separate. In questo senso la parola «sussiste» non nega, ma sottolinea l’unicità della Chiesa cattolica. Quanto agli altri cristiani, il termine «Chiese» è applicato agli ortodossi, dei quali la Chiesa crede che conservino la successione nell’episcopato, il valido sacerdozio e la valida eucarestia anche se con una «carenza» grave, la separazione dalla comunione con il Papa. Le denominazioni protestanti, che invece non hanno conservato la successione apostolica né un valido sacerdozio, non vanno chiamate «Chiese» ma «comunità».
Dunque, nessun relativismo. Ma neppure nessun passo indietro sull’ecumenismo. Infatti, benché nelle altre Chiese cristiane propriamente non «sussista» l’unica vera Chiesa, esse tuttavia «non sono affatto spoglie di significato e di peso». «Infatti lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza» per cui la Chiesa cattolica non può rinunciare al dialogo ecumenico.
Ai tradizionalisti - dopo la liturgia - Benedetto XVI offre ampie rassicurazioni sulla dottrina tradizionale della Chiesa, del resto già contenute nella dichiarazione «Dominus Iesus» che aveva firmato nel 2000 come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Dà tuttavia anche un avviso ai naviganti che spera siano diretti verso Roma: all’ecumenismo la Santa Sede non intende rinunciare, né è disposta ad ammettere - come vorrebbe qualche tradizionalista - che i documenti del Vaticano II (da non confondere con la loro interpretazione da parte di qualche teologo) contenessero errori. Più in là, onestamente, Benedetto XVI non poteva andare. I tradizionalisti possono scegliere: stringere la mano che è stata loro tesa o imboccare decisamente la via dello scisma.
© Copyright Il Giornale, 12 luglio 2007
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