15 settembre 2007
Intervista a Padre Jaeger sul motu proprio "Summorum Pontificum", dialogo interreligioso e "Gesù di Nazaret"
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Ecumenica è solo la verità
Per padre Jaeger il motu proprio del Papa sulla Messa in latino non è antisemita. È quando i cristiani smettono di pregare perché tutti conoscano Gesù che bisogna preoccuparsi per le sorti del dialogo
di Amicone Luigi
Ha il doppio passaporto (israeliano e brasiliano) e un permesso di residenza permanente negli Stati Uniti. David Maria Jaeger, 52 anni, è un uomo religioso molto particolare. Bon vivant dall'intelligenza acuminata, ironica e cosmopolita, è a tutt'oggi l'unico sacerdote cattolico al mondo che sia anche un "sabra", cioè della generazione dei nati in Israele. Discendente di una famiglia di intellettuali ebrei emigrati dall'Europa dell'Est a Tel Aviv e simpatizzante del partito della estrema sinistra israeliana di Yossi Beilin, padre Jaeger è particolarmente legato alla memoria di papa Pio XII, di cui è strenuo difensore e a cui deve, grazie alla lettura dell'enciclica Mystici corporis Christi, la folgorazione per cui a 17 anni varcò per la prima volta la soglia di una chiesa cattolica (la chiesa di San Pietro a Jaffa) e chiese il battesimo. Dopo essere stato "l'anima" (a detta della stampa israeliana) dell'Accordo fondamentale tra Israele e Santa Sede (1993) e membro della commissione bilaterale permanente per l'implementazione dello stesso Accordo, ha ricoperto la carica di vicario giudiziario nella diocesi statunitense di Austin e di giudice d'appello della corte ecclesiastica per lo Stato del Texas. Attualmente è professore di diritto canonico al Pontificio Ateneo Antonianum di Roma e religioso dell'ordine dei frati minori della custodia di Terra Santa di Gerusalemme. Negli Stati Uniti è presidente dell'organizzazione The Church and Israel Public Education Initiative e in Italia dell'associazione culturale Europe-Near Est Center.
Padre Jaeger, le chiedo innanzitutto una sorta di expertise sul motu proprio con cui papa Benedetto XVI ha liberalizzato la Messa in latino. Siccome ci sono due versioni della preghiera del Venerdì Santo, quella di Giovanni XXIII «per la conversione degli ebrei» e quella di Paolo VI che invece usa una formula più sfumata, da parte ebraica qualcuno ha sollevato critiche e perplessità. Vuol dire che entrambe le formule valgono e possono essere utilizzate?
Come il Papa tiene a ribadire, nel formulare e promulgare il messale di Paolo VI la Chiesa non ha mai sconfessato l'edizione di Giovanni XXIII. Di fatto, non si è mai smesso di usarlo legittimamente. Poi nel pontificato di Giovanni Paolo II si diedero ampie facoltà di seguire quello stesso messale. Insomma, quella del pontefice regnante non è un'innovazione sostanziale, ma semplicemente la liberalizzazione delle regole procedurali. In Italia si potrebbe anche chiamare, per analogia, "autocertificazione". Ora, nel motu proprio di papa Benedetto XVI, articolo 2, si legge che «nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia religioso, può usare o il Messale Romano edito dal beato Papa Giovanni XXIII nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione secondo l'uno o l'altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario». Dunque, non si nota questa esclusione per le celebrazioni organizzate col popolo. In linea di principio si può seguire anche il messale precedente.
E alle critiche emerse in taluni ambienti della comunità ebraica, cosa risponde?
Che non sono giustificate.
Perché?
Perché la Chiesa non ha mai cambiato la propria fede. Il messaggio evangelico è rivolto a tutti gli esseri umani e la volontà divina è che tutti gli esseri umani conoscano Cristo e lo accettino come Signore e Salvatore. Il cristianesimo è una religione universale che crede che, soggettivamente, Dio può senz'altro salvare anche chi non conosce Cristo. Però, oggettivamente, la salvezza che Dio vuole per tutti gli uomini è quella che si trova in Cristo e nella sua Chiesa. Perciò la Chiesa, per vocazione essenziale, prega sempre per la conversione di tutti a Cristo, nessuno escluso. Questa fede della Chiesa è irrinunciabile. Rinunciare a essa significherebbe rinunciare al cristianesimo stesso.
Però ammetterà che c'è una differenza tra la formula usata da Giovanni XXIII e quella di Paolo VI.
Sì, nel messale edito prima da Paolo VI e poi ripubblicato in due altre edizioni ufficiali da Giovanni Paolo II, la preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei è espressa in modo meno esplicito e vi si chiede che gli ebrei progrediscano sempre più nella fedeltà all'alleanza. Ma chiunque conosca qualcosa del cristianesimo non può non capire che per il cristiano "progredire nella fedeltà all'alleanza" vuol dire inequivocabilmente venire a riconoscere nelle scritture ebraiche l'orientamento cristologico, cioè arrivare al convincimento, al riconoscimento, che le scritture parlano tutte di Cristo e che quindi è Cristo il compimento dell'alleanza. Per questo il motu proprio non introduce cambiamenti di sostanza ma soltanto uno stile diverso di esprimere la stessa preghiera, che è quella essenziale della fede cristiana.
Dunque certi equivoci possono essere scaturiti, tutt'al più, diciamo così, da qualche eccesso di zelo ecumenico.
Certamente. Nessuno si deve sentire leso o offeso perché è chiaro che il cristianesimo e il giudaismo sono due religioni diverse. Se si parla di dialogo, il dialogo si fa tra due interlocutori differenti. Se il cristianesimo e il giudaismo fossero d'accordo non sarebbero più religioni diverse, e il criterio che distingue l'una dall'altra è il riconoscimento di Cristo come unico salvatore di tutta l'umanità. È da questa constatazione che parte il dialogo. E dialogare significa dire: abbiamo delle condizioni di fede diverse riguardo a Cristo, ciononostante abbiamo un'eredità comune piuttosto vasta, le scritture ebraiche, le quali trasmettono un messaggio che esiste anche qualora non se ne riconosca il compimento definitivo in Cristo. In base a questa vasta eredità comune possiamo e dobbiamo non soltanto continuare a lavorare per conoscerci accuratamente a vicenda, ma anche testimoniare insieme al mondo le verità pienamente condivise circa Dio, circa l'umanità e circa il rapporto tra l'umanità e Dio. Questo è il dialogo, questa è la collaborazione. Inoltre è chiaro che sosteniamo in modo fermissimo il diritto umano alla libertà di coscienza e di religione. Per cui tutti noi, cristiani ed ebrei, rinunciamo all'uso di qualsiasi mezzo di costrizione per fare accettare agli altri le nostre convinzioni. E riteniamo che lo Stato debba rispettare quello che potremmo in qualche modo chiamare "libero mercato delle idee". I sostenitori di idee diverse, e perfino divergenti, hanno sempre il diritto, nel rispetto delle regole della libertà, di proporre le proprie idee agli altri e di auspicare che gli altri le accettino.
A proposito di dialogo. Jacob Neusner, il grande rabbino americano estesamente citato dal Papa nel suo libro Gesù di Nazaret, dice che «Benedetto XVI è un cercatore della verità. Quelli che stiamo vivendo sono tempi interessanti». Lei ha letto il libro? Cosa ne pensa? Non trova singolare e straordinario che lo stesso vicario di Cristo, proprio in premessa del suo libro su Cristo, affermi che «non è in alcun modo un atto magisteriale» e «ognuno è libero di contraddirmi»?
Sì, ho letto il libro e anch'io trovo singolare e straordinaria quest'opera del Santo Padre. In Gesù di Nazaret il Papa infatti affronta la sfida più fondamentale per il credente cristiano intelligente, e cioè come integrare le acquisizioni degli studi recenti, detti globalmente il metodo storico-critico, alla fede della Chiesa. Questa è una sfida fondamentale perché da una parte non è corretto rifiutare totalmente gli studi biblici del secolo XX (ai quali un valore sarebbe già stato riconosciuto da Pio XII con l'enciclica Divino afflante spiritu), dall'altra non si può certamente accettare che sia da accogliere acriticamente il frutto di metodi di studio che prescindono dall'esistenza di Dio. Un metodo che esclude l'esistenza di Dio, che procede come se Dio non ci fosse, non può essere un metodo completamente adeguato.
Dunque, secondo lei, il Gesù di Benedetto XVI ristabilisce un metodo adeguato alla conoscenza del "problema" cristiano. È così?
Sì, il problema del metodo è decisivo. Occorre recuperare un criterio intrinseco che consenta dall'inizio l'uso del metodo storico in modo integrato con le conoscenze della fede. È una questione che preoccupa fin da quando san Pio X denunciò il modernismo che pretendeva di accreditare gli studi storico-critici che seguivano il metodo del "come se Dio non ci fosse". La questione del metodo è importantissima. Tant'è che rimane ancora aperta e non è stata affrontata in modo completo. Il Papa nel suo libro ci mostra la strada.
Quale strada?
La strada esemplare e insuperata di come il credente, senza avventurarsi mai in doppie verità, riesce a fare tutto l'uso possibile e necessario dei risultati storico-critici all'interno dell'esperienza della fede, cioè di quella conoscenza che solo la Chiesa può avere.
Mentre anche in tanta teologia attuale sembra correre di nuovo il rischio di separare il Gesù storico e il Gesù della fede, rischio denunciato dallo stesso Ratzinger.
Sì, è il rischio della doppia verità.
Di cosa si tratta?
Bè, non possiamo dilungarci su questo punto, ma una parentesi si può fare. Dunque, nel Medioevo ci fu una corrente filosofica, quella dei cosiddetti averroisti latini, che riteneva che la verità potesse essere diversa a seconda della disciplina di metodo impiegata. Gli averroisti ritenevano, ad esempio, che il mondo non sia stato creato da Dio ex nihilo come sostiene la teologia, ma che, essendo eterno per la filosofia, ci sia sempre stato. Un simile approccio, però, non può mai essere accettato. E infatti gli averroisti latini furono condannati severamente. La verità è unica. Se una cosa è vera in teologia non può essere falsa in filosofia. Eppure non sono pochi quelli che hanno affrontato il metodo-storico critico riesumando la dottrina della doppia verità. Come quel famoso anziano teologo che, interpellato dall'allora cardinale Ratzinger, rispose: «Io ritengo che lo studio accurato della scrittura rivela che i racconti dell'incarnazione, dell'annunciazione e della verginità di Maria sono favole, costruzioni letterarie. Però, come cattolico, credo davvero che nostro Signore è nato da una Vergine e che sia Dio incarnato». Questo non è possibile. Non ci può essere una verità doppia. La verità è una, o non è. Per questo penso che il libro del Papa, come forse nessun altro fin'ora, sia un esempio di superamento definitivo dell'appello alla doppia verità.
Tornando al rabbino Neusner. Nel Gesù di Ratzinger questo saggio ebreo ha un ruolo importante nella dissipazione di ogni ragionevole dubbio circa la storicità e l'identità ebraica di colui che i cristiani riconoscono come il Messia. Lei cosa ne pensa?
È impressionante come nell'ebreo religioso Gesù emerga una pretesa eccezionale rispetto alla religione vissuta da qualunque ebreo. Lo stesso Neusner ha sottolineato come Gesù non si dimostri un ebreo qualunque e obbediente alle prescrizioni della sua religione nel proclamarsi Signore del sabato e nell'agire di conseguenza. Perché questo un ebreo obbediente, fedele e praticante non avrebbe mai potuto pensarlo.
Però la sottolineatura che Benedetto XVI fa dell'ebraicità di Gesù è originale. Viene quasi da pensare che nel magistero di questo papa ci sia un passo ulteriore rispetto a quello fatto da Giovanni Paolo II con la storica visita alla sinagoga di Roma.
Sì, e sono passi che la struttura dell'incarnazione prevede. L'incarnazione, cioè l'ingresso di Dio nella storia degli uomini, non sarebbe mai potuta accadere in un uomo astratto. L'umanità di Gesù non avrebbe mai potuto essere generica. Per essere umano e diventare soggetto nella storia degli uomini, Dio deve accadere in un luogo preciso, in un momento determinato del tempo, in un contesto storico umano. Deve diventare membro di un popolo, di una cultura, di una comunità. E questo avvenne all'interno del popolo, della comunità e della cultura ebraica. L'incarnazione non avvenne altrove, non avvenne in un qualsiasi altro popolo, perché nel popolo ebraico da ormai molti secoli, pazientemente, Dio si era preparato un contesto religioso, culturale, storico idoneo a ricevere la rivelazione. Dio entra in questo contesto storico-umano. E lo supera. O, se si preferisce, lo porta a compimento. Questo è il rapporto tra Cristo e l'ebraismo. Questo è il legame unico e singolare tra la fede cristiana e l'eredità ebraica, compresi coloro che ancora oggi quella eredità la mantengono e credono di esserle fedeli, meritando di essere chiamati, come diceva Giovanni Paolo II, «i nostri fratelli maggiori». Ebraismo e cristianesimo sono le uniche due religioni che derivano dalla rivelazione divina positiva e pubblica. Per questo tra ebrei e cristiani sussiste un legame assolutamente irripetibile.
Lei una volta disse che non si può separare l'ebraismo da quel risorgimento laico rappresentato dal sionismo e dal suo esito storico, lo Stato d'Israele.
Ma certo. L'ebraismo che noi conosciamo non si può ritenere una mera conservazione della cultura che conobbe Gesù nella sua umanità. L'ebraismo non si è conservato nel ghiaccio. Chi conosce l'ebraismo odierno non può estrapolare da esso l'ambiente storico di Gesù. Questo può farlo solo lo studioso che ha applicato il metodo storico-critico alle fonti ebraiche. Bisogna rilevare inoltre che l'ebraismo, nei secoli successivi alla resurrezione di Cristo (e ancora di più dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nell'anno 70) si sviluppò in rapporto dialettico al cristianesimo. Cioè non c'è da una parte l'ebraismo rimasto immutato e dall'altra il cristianesimo che si sviluppa. C'è, invece, uno spartiacque: da una parte gli ebrei e i gentili che credettero in Gesù, dall'altra quelli che non credettero in lui ma che si svilupparono in modo dialettico con il cristianesimo. Bisogna avere una comprensione storica, come quella che serve per capire il rapporto tra le Chiese ortodosse e quella cattolica: c'è chi pensa che le chiese greco-ortodosse-bizantine di oggi siano semplicemente la continuazione della Chiesa del primo millennio, ma questo non solo non è vero storicamente, non è neanche possibile. Si capisce cosa vuol dire la storicità dell'esistenza umana. Prenda il mio caso. Non è che io mi sono convertito al cristianesimo dall'ebraismo. La mia storia con l'ebraismo è una cosa di cui sono profondamente grato alla divina provvidenza. Però al cristianesimo sono arrivato come uomo che si colloca sul sentiero della vita e dell'esistenza ponendosi certe domande, le stesse che sono formulate all'inizio della Gaudium et spes. Domande sul senso della vita e delle cose, sul senso della morte, sulla fatica della nostra vita su questa terra. Io sono giunto al cristianesimo da queste domande, da questa ricerca. Non dall'ebraismo. Io l'ebraismo l'avevo abbandonato da giovanissimo, l'avevo studiato e poi lasciato per cercare altrove. A un certo punto la mia ricerca di risposte esistenziali mi ha portato al cristianesimo. Non ho abbandonato l'ebraismo per il cristianesimo, ho trovato la risposta alle mie domande di uomo.
© Copyright Tempi num.37 del 13/09/2007
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