6 febbraio 2008

Nei capolavori di Michelangelo una fede vissuta e sofferta (Timothy Verdon)


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Nei capolavori di Michelangelo una fede vissuta e sofferta

Muscoli al servizio della teologia

di Timothy Verdon

L'intenso rapporto di Michelangelo Buonarroti con Cristo Signore è testimoniato non solo in celebri opere di scultura e pittura ma anche nelle poesie e nelle lettere del maestro. È un rapporto che abbraccia l'intera vita dell'artista: cresciuto nella Firenze di Marsilio Ficino e Savonarola, sin dall'adolescenza Michelangelo aveva conosciuto sia l'attrattiva del nuovo umanesimo cristiano sia il richiamo della tradizione penitenziale popolare. Alla corte di Giulio II, poi, respirò l'aria di un'ardita articolazione del senso cristiano della storia, e successivamente, al servizio di Paolo III, fu a contatto con prelati e teologi impegnati nella prima fase della riforma cattolica, contribuendo lui stesso ad alcune tra le più potenti espressioni della nuova spiritualità cattolica. Nella vecchiaia, infine, mentre ridefiniva l'assetto del tempio-simbolo del potere della Chiesa, San Pietro, abbozzò strazianti visioni di fragilità personale nelle sue ultime due sculture, le Pietà ora rispettivamente a Firenze e Milano, l'una e l'altra intesa per la propria tomba.
È possibile però da questa lettura genericamente religiosa dell'arte michelangiolesca passare all'affermazione che l'artista sia stato grande innovatore non solo nelle forme da lui inventate ma anche nei contenuti: che cioè fosse l'originale ed influente ideatore di linee d'interpretazione teologica destinate a durare nella vita della Chiesa? È vero che, nella storia dell'Occidente, forse nessun artista ha influito sul senso del sacro quanto Michelangelo, le cui opere a soggetto biblico o devozionale continuano dopo cinque secoli a toccare credenti e non credenti, investendo i temi dell'iconografia giudeo-cristiana di drammaticità e forza vitale.
Il Davide e il Mosé, i personaggi della volta sistina e del Giudizio universale, le figure michelangiolesche di Maria e le Pietà hanno plasmato un nuovo modo di concepire sia Dio che l'uomo, lontano dalle convenzioni spirituali dell'arte bizantina ma anche dal naturalismo della fine del medioevo europeo e del primo rinascimento italiano.
Sono capolavori che, oltre al fascino formale, comunicano il loro messaggio con efficacia tale che il fruitore si trova coinvolto in un'esperienza religiosa autentica ed originale, frutto di una fede meditata, vissuta e sofferta.
In che modo però considerare Michelangelo proprio "teologo", uno capace cioè di dire una parola (lògos) nuova su Dio (Theòs)? Riflettendo qualche anno fa sull'invito degli editori di un libro che stavo allora scrivendo di elaborare proprio questa tesi, conclusi che la qualifica di "teologo" applicato a un artista del rinascimento non era poi tanto paradossale quanto potesse sembrare.
Nella vita ecclesiastica dell'epoca, tra le categorie di persone professionalmente interessate alla riflessione teologica, i pittori e gli scultori venivano subito dopo i sacerdoti e religiosi, e con questi avevano un rapporto privilegiato. Nel caso di Michelangelo, sappiamo che la sua prima formazione avvenne infatti nella bottega di un maestro di chiara fama, Domenico Ghirlandaio, impegnato allora nella realizzazione di un programma d'immagini nel presbiterio della chiesa del principale convento domenicano di Firenze, Santa Maria Novella.
Dal Ghirlandaio stesso, già esperto nell'illustrazione di soggetti iconografici tradizionali, nonché dai padri della comunità, spiritualmente ed intellettualmente formati nella tradizione patristica e scolastica, i garzoni e giovani collaboratori non ricevevano una qualche spiegazione del senso di quanto dovevano eseguire? Non discutevano tra loro sul modo migliore di adempiere al compito assegnato? E non si spingevano qualche volta ad offrire letture nuove di soggetti conosciuti, fosse solo per mettere in luce la propria bravura? E la bravura e reputazione professionali non venivano misurate anche in base alla capacità dell'artista d'interpretare in modo originale i grandi temi religiosi, mitologici e storici? Quasi ogni pagina delle Vite vasariane invita a dare una risposta positiva a simili domande, supponendo che sì, i giovani artisti venivano formati in questo senso dai maestri e dai responsabili delle chiese; che sì, si scambiavano le idee tra di loro; che sì, tentavano ogni tanto delle nuove letture; e che sì, venivano giudicati dai contemporanei anche in base alla loro originalità "esegetica".
Nel caso di Michelangelo, oltre a questo contesto generale ci sono altri fattori: la sua situazione familiare, ad esempio, con un fratello maggiore che, diventato frate domenicano, lo aveva obbligato ad assumersi le gravi responsabilità morali del primogenito; poi l'indole intellettuale dell'artista stesso, che nel linguaggio delle lettere e poesie lo rivela a suo agio con molti luoghi comuni del pensiero teologico; e infine la fede personale, così intensa in tarda età che dobbiamo per forza supporne vigorose radici giovanili. La sua inoltre era quasi certamente una fede nutrita dalla conoscenza della Scrittura: gli studi di Rab Hatfield confermano la diretta dipendenza di numerose scene della volta sistina dalle xilografie della Bibbia illustrata pubblicata da Niccolò Malerbi a Venezia in più edizioni a partire dal 1490 (quattro anni prima del breve soggiorno del giovane Buonarroti nella città lagunare). Hatfield ipotizza che Michelangelo fosse proprietario di un esemplare di quest'opera, e che oltre a servirsene come fonte iconografica ne conoscesse bene anche il testo, che era in italiano, non in latino.
Soprattutto c'era il senso d'inserimento nella tradizione d'arte monumentale fiorentina, che era anche una tradizione interpretativa di particolare raffinatezza, e - come insiste Vasari - la "vocazione" a perfezionare tale tradizione, anche nei suoi aspetti interpretativi. Se guardiamo, ad esempio, la prima opera di Michelangelo giunta a noi, la Madonna delle scale databile intorno al 1491, rimaniamo colpiti dal modo in cui l'artista sedicenne abbia voluto collocarsi nella compagine dell'arte della sua città. "Borsista" nella "accademia" istituita da Lorenzo de' Medici e affidata alla guida dell'ultimo assistente di Donatello, Bertoldo di Giovanni, Michelangelo non solo tenta la difficile tecnica donatelliana del rilievo stiacciato (schiacciato, appiattito), ma sceglie una tipologia mariana lontana anni luce dall'eleganza coltivata dalla generazione immediatamente precedente (da Botticelli, ad esempio), riportando l'individualistica riaffermazione del passato ben oltre Donatello, per toccare le sorgenti duecentesche e trecentesche della tradizione figurativa fiorentina.
Le massicce proporzioni della sua Madonna nonché il suo sguardo meditabondo, infatti, evocano le forme e lo spirito della cosiddetta Madonna dagli occhi di vetro di Arnolfo di Cambio - all'epoca ancora al suo posto sopra l'ingresso principale del Duomo - e di opere da essa scaturite quale la giottesca Maestà della chiesa di Ognissanti; di immagini arcaiche e solenni, cioè, che presentavano Maria non solo o in primo luogo come donna umana e madre, ma come regina, donna apocalittica, figura della Chiesa Sponsa Christi e Mater christianorum. Il posizionamento di questa donna ai piedi di una gradinata su cui vediamo dei bambini ("angeli") suggerisce inoltre una articolata consapevolezza del topos mariano della scala paradisi - la disponibilità spirituale e fisica di Maria che permise al Divino di scendere nell'umano e all'umano di salire al Divino -. La sua collocazione sopra un grande blocco squadrato e levigato allude poi al mistero di una libertà comunque basata su Colui che è pietra d'angolo di ogni costruzione ben compaginata, Cristo, unico fondamento della Chiesa.
Michelangelo, voglio dire, presenta Maria in termini mistici ed ecclesiali (derivanti da Dante) come "figlia del proprio Figlio", il quale - visto mentre si nutre al suo seno - possiede l'eroica forza di chi non solo riceve ma dà la vita.
La muscolarità del Bambino nella Madonna delle scale come le fattezze giunonesche della madre suggeriscono un'altra riflessione. Michelangelo scolpì questo rilievo mentre era alunno della cosiddetta "accademia" istituita da Lorenzo, a cui era arrivato in seguito a un passaggio significativo. Dice il Vasari che il Magnifico, "dolendosi (...) che ne' suoi tempi non si trovassero scultori celebrati e nobili, come si trovassero pittori di grandissimo pregio e fama, deliberò (...) di fare una scuola; e per questo chiese a Domenico Ghirlandaio che, se in bottega sua avesse de' suoi giovani che inclinati fussero a ciò, gl'inviasse al giardino dove egli desiderava di esercitargli e creargli in una maniera che onorasse sé e lui e la città sua" (Vita di Domenico Ghirlandaio). Il "giardino" dove Lorenzo de' Medici riceveva i giovani era poi quello vicino al convento di San Marco in cui i Medici tenevano la loro collezione di sculture antiche, con Bertoldo di Giovanni come "curatore".
L'idea dell'invito che portò Michelangelo insieme a un altro "giovane" della bottega del Ghirlandaio, Francesco Granacci, al giardino mediceo era pertanto quella di formare una futura generazione di scultori sotto la guida di un discepolo del più grande scultore del Quattrocento, Donatello, mediante il contatto diretto con una delle fonti principali dell'arte donatelliana, la scultura greco-romana. Il tutto in vista della necessità di colmare la lacuna creatasi dopo la morte di Donatello, la mancanza di grandi maestri della scultura in marmo a Firenze.
Così il senso di una chiamata a perfezionare la tradizione toscana riportandola alle sue radici antiche, di cui parla Vasari nella Vita di Michelangelo, nasce veramente nel programma culturale di Lorenzo de' Medici per la sua città, e i rimandi donatelliani ed antichi della Madonna delle scale corrispondono alle attese del generoso mecenate. E l'eroicità del Bambino al seno di Maria, nel rilievo, è sì un'evocazione dell'antico, ma in una chiave "alimentare" che invita l'ipotesi di un'identificazione personale e nazionale: l'appena rinata conoscenza dell'Antichità nutrita al seno materno della tradizione fiorentina.
In ogni caso il muscoloso Bambino conferma che, sin dalle prime esperienze, Michelangelo abbia associato la sua idea della scultura e quindi della sua "vocazione" individuale con il corpo classicamente nudo, forte e bello. Il corpo è infatti il soggetto visivo della seconda opera superstite del giovane scultore, la Battaglia dei centauri scolpita a pochi mesi dall'ultimazione della Madonna delle scale, dove l'artista adolescente, sviluppando la ricerca anatomica di maestri della generazione precedente quale Antonio Pollaiuolo, si distingue per la sua stupefacente facilità nella rappresentazione del corpo in movimento, nonché per la robusta maturità tipologica: non più gli eleganti giovincelli del Botticelli, e neppure i nervosi superdotati del Pollaiuolo, ma uomini nel fior fiore dello sviluppo muscolare adulto che, movendosi come in un sogno di battaglia, dimostrano tutta la forza della loro bellezza maschile.
Includo questo soggetto tratto dalla mitologia greca tra le opere dell'"artista teologo" per un motivo evidente. Il senso di vocazione che un giovane scultore poteva elaborare negli anni Novanta del Quattrocento a Firenze e nella cerchia laurenziana, necessariamente includeva delle conoscenze del corpo come soggetto derivanti dallo studio dell'arte antica e, insieme a queste, delle conoscenze mitologiche; oltre alla forma, includeva cioè il contenuto dell'arte greco-romana. Tali conoscenze di tipo classico non venivano però scisse dalla dominante matrice cristiana del tempo ma, anzi, messe al suo servizio: così abbiamo visto il potere del neonato Figlio di Dio nel corpo classicamente muscoloso che Michelangelo gli attribuisce nella Madonna delle scale, e qui, nella Battaglia dei centauri, vediamo probabilmente una moralizzazione cristiana dell'evento mitologico. Condivi ricorda, infatti, come l'umanista Angelo Poliziano, membro illustre della cerchia laurenziana dove ricopriva le funzioni di tutore dei figli del Magnifico, per aiutare il giovane Michelangelo gli spiegava il significato di soggetti classici quali il ratto di Deianira e la battaglia dei centauri - "spiegazioni", queste, che (alla maniera degli umanisti quattrocenteschi) dovevano presentare il racconto pagano alla luce della morale giudeo-cristiana -. Così la sconfitta dei centauri ancora bestiali nel corpo e nei comportamenti da parte di esseri umani assistiti da un dio (Apollo) veniva probabilmente delucidata in termini di una graduale evoluzione verso la pienezza di quell'umanità che - come tutti sapevano, non c'era forse neanche bisogno di dirlo - verrebbe poi assunta dal Figlio di Dio.
Qualunque sia stato il tenore delle spiegazioni del Poliziano, il punto è che - già nell'adolescenza del Buonarroti - la scultura antica, il corpo umano, i miti greco-romani e la tradizione di fede e arte cristiana sono confluiti nell'unico senso di vocazione o missione del giovane, formando, già prima che Michelangelo avesse diciassette anni, la visione culturale personale con cui sarebbe poi vissuto. Proprio da questa confluenza paradossale e dinamica sarebbero dipese alcune delle sue invenzioni più rivoluzionarie-opere quali il Tondo Doni e la volta della Sistina, che - abbinando il pagano al cristiano - suggeriscono l'unicità della storia della salvezza e l'attività in ogni popolo e cultura dell'unico Spirito di Dio.
Enfatizzo gli inizi fiorentini di Michelangelo perché sono convinto dell'importanza che ebbe, nella formazione spirituale dell'artista, la sua città natale con la sua particolare tradizione d'arte sacra. Dobbiamo infatti intendere l'affermazione del Vasari, che cioè Dio "volse dargli Fiorenza, degnissima fra l'altre città, per patria", non solo o principalmente come un rimando all'età d'oro laurenziana in cui il Buonarroti nacque e crebbe, ma come rivendicazione di tutta la gloriosa eredità culturale che Firenze aveva elaborata sin dall'era di Giotto. Il Vasari lo dice chiaramente: "Volse dargli Fiorenza, degnissima fra l'altre città, per patria, per colmare al fine la perfezione in lei meritamente di tutte le virtù, per mezzo d'un suo cittadino". Secondo il suo primo biografo, cioè, la "missione" affidata da Dio a Michelangelo si concretizzava nel perfezionamento della secolare tradizione artistica fiorentina, considerata non solo nella sua raffinata fase tardo quattrocentesca ma anche e soprattutto nella straordinaria energia dei veri inventori del rinascimento, da Giotto a Donatello.
Possiamo prendere come monumento-simbolo di questa tradizione - e quindi della "missione" e "vocazione" che Vasari attribuisce a Michelangelo - la enorme cattedrale di Firenze, Santa Maria del Fiore, iniziata da Arnolfo di Cambio all'epoca di Giotto (il quale verrà chiamato a progettarne il campanile) e ultimata da Filippo Brunelleschi all'epoca di Donatello (a sua volta chiamato ad arricchire duomo e campanile di importanti statue). Possiamo prendere la cattedrale come simbolo, dico, perché ancora all'epoca di Michelangelo essa costituiva il luogo d'ideale inserimento nella tradizione: il luogo dove ogni giovane artista fiorentino sperava di essere chiamato a lavorare, e dove Michelangelo fu in effetti chiamato dopo il primo, ancora sperimentale periodo a Roma. Il suo Davide venne commissionato per la cattedrale (anche se, mentre Michelangelo lo scolpiva, la destinazione fu cambiata), e così anche il potente San Matteo.
Ciò che mi preme sottolineare qui è il rapporto tra la concezione d'arte che Michelangelo s'era coltivata, e che fu parte integrante della sua concezione di se stesso, e l'antico concetto di un'arte sacra pubblica a servizio della collettività che ogni cattedrale medievale incarna. Pur crescendo nel contesto "privatistico" del mecenatismo alto borghese del tardo Quattrocento, d'istinto Michelangelo preferiva grandi commissioni pubbliche perché la sua idea d'arte implicava la comunicazione dei grandi valori della collettività; la sua idea dell'arte sacra poi, lontana dalla sensibilità pietistica dei contemporanei, lo portò verso un linguaggio universale destinato a rivoluzionare non solo l'arte ma anche la fede europea nei secoli a seguire. Ma fu l'identificazione personale con gli obiettivi storici dell'arte della sua città a spingere Michelangelo in questa direzione. Senza le eroiche figure di profeti ed evangelisti del campanile e duomo fiorentino, sarebbe inconcepibile l'intensità morale dei personaggi della volta sistina e della tomba di Giulio II; e senza l'ambizione giovanile dell'artista di parlare a tutta una città, sarebbe inimmaginabile la capacità matura del Buonarroti di comunicare alla Chiesa e al mondo elementi fondamentali della millenaria identità dell'occidente.

(©L'Osservatore Romano - 6 febbraio 2008)

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