1 febbraio 2008

I seminaristi: liberi, controcorrente, impegnati nella missione (Osservatore Romano)


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In occasione della visita del Papa al Pontificio Seminario Romano Maggiore il rettore Giovanni Tani spiega la formazione dei futuri sacerdoti

I seminaristi: liberi, controcorrente, impegnati nella missione

Giampaolo Mattei

Chi è la persona che oggi bussa alla porta del seminario e vuole essere prete? Ha tra i 25 e i 35 anni, ha fatto l'università e viene dalla strada classica della parrocchia dove è stato catechista o ministrante. E come si prepara a diventare sacerdote, che cosa impara negli anni di formazione? È precisa la risposta del rettore del Pontificio Seminario Romano Maggiore, monsignor Giovanni Tani: a non far mai passare una giornata senza Eucaristia, senza liturgia delle ore, senza incontro con Dio nella preghiera, senza alimentare l'amicizia con quanti condividono la stessa vocazione. Ecco l'identikit del seminarista oggi: una persona libera, capace di andare controcorrente e riconoscere che se Deus caritas est vale la pena buttarsi anima e corpo nella missione di testimoniarlo a tutti.
La visita di Benedetto XVI al Seminario romano ripropone la riflessione sulla figura del seminarista cioè del futuro sacerdote. Il Papa, secondo una radicata tradizione, si reca nel tardo pomeriggio di venerdì 1° febbraio al Laterano per incontrare i suoi seminaristi proprio dove vivono, pregano, studiano in fraternità preparandosi al ministero sacerdotale. Un appuntamento in occasione della festa patronale della Madonna della Fiducia. E la visita di Benedetto XVI comincia dal piccolo santuario (una semplice stanza) dove è venerata l'immagine mariana più cara al clero romano. Quindi nella cappella presiede i primi vespri della festa. Poi si ferma a cenare familiarmente con la comunità.
Il Seminario romano venne fondato proprio il 1° febbraio di 443 anni fa. Era il 1565: un anno, sei mesi e quindici giorni dopo la 23ª sessione del concilio di Trento che ha stabilito il canone XVIII sul sacramento dell'ordine per l'istituzione di seminari per la formazione sacerdotale. Le fondamenta vennero gettate da una commissione di cardinali, tra i quali spicca san Carlo Borromeo.
Monsignor Tani, rettore dal 2003, dopo essere stato direttore spirituale dal 1985 al 1999, presenta nell'intervista i tratti essenziali della vita e della formazione dei seminaristi del Laterano.

Quanti sono gli alunni e da dove provengono?

Sono 117. Da alcuni anni il numero si è assestato intorno a 120. I romani sono 54. Non è un numero basso, considerato che in anni neppure troppo lontani erano una decina, ma è certamente inferiore alle necessità. In 18 provengono da altri paesi: Croazia, Bulgaria, Polonia, Spagna, Ucraina, Ungheria e Haiti. In 45 arrivano da 24 diocesi italiane, in prevalenza del centro sud, ma anche il nord è rappresentato. È una comunità grande, ma gestibile dal punto di vista educativo, nei rapporti diretti.

Che strada ha percorso la persona che oggi arriva in seminario?

Due sono le caratteristiche prevalenti. C'è chi arriva qui per via di certe crisi esistenziali o per incontri con un sacerdote o per particolari avvenimenti della vita: insomma attraverso percorsi personali che approdano a una ricerca vocazionale. C'è, poi, anche la strada classica che ora ha ripreso incremento: vocazioni che maturano nelle parrocchie, nei gruppi ecclesiali, tra i ministranti e i catechisti. Anche la provenienza dal seminario minore sta riprendendo.

A che età si entra in seminario?

L'età media varia tra i 25 e i 35 anni. Ci sono rari picchi in basso e in alto: non manca chi entra in seminario a 18 anni e anche i ventenni sono molti. La maggior parte viene dopo la laurea o durante l'università. Qualcuno ha anche esperienze lavorative.

Che formazione ricevono?

La formazione ricalca il percorso tradizionale del seminario e guarda alle dimensioni umana, spirituale, intellettuale e pastorale. Il nostro è un ambiente dove la persona ricerca in profondità la sua strada. In sintesi, la ricerca di Dio nella comprensione di se stesso. Il percorso dello studio da noi avviene presso le Università pontificie, alla Lateranense e alla Gregoriana. Per le specializzazioni ci rivolgiamo anche agli altri istituti. Si preparano a confrontarsi, in un dialogo costruttivo, con una cultura che per certi versi dimentica Dio.

I seminaristi svolgono già attività pastorale?

Sì, siamo presenti a Roma in 58 ambiti pastorali: parrocchie, ospedali, carceri, case di accoglienza. In queste attività gli alunni sono impegnati due volte alla settimana. Diamo vita poi alle missioni parrocchiali, un'esperienza significativa. È un tempo forse limitato, ma non si può sbilanciare l'armonia generale del progetto di formazione.

Come si svolge la vita comunitaria?

Nella formazione interna, da oltre trent'anni, la comunità del seminario romano è articolata in piccoli gruppi. Attualmente ce ne sono 17, composti ciascuno da un diacono e da altri 5 o 6 seminaristi di diverse classi. Si crea così un ambiente familiare, per non perdersi all'interno di una comunità che, vista la grandezza, lascerebbe spazio a individualismi. Un piccolo gruppo, invece, evita questo rischio, favorisce dinamiche di crescita e il superamento delle difficoltà che si incontrano nella formazione.

E la preghiera, la spiritualità?

L'aspetto spirituale è molto sottolineato con i tempi di preghiera comunitari e personali. La Chiesa insegna che se manca l'incontro personale con il Signore, approfondito e non abitudinario, viene meno la percezione profonda, fondata e radicale di una chiamata di Dio.

Quali sono i problemi che si incontrano nella formazione dei seminaristi?

A volte ci possono essere rapporti educativi dove manca la totale trasparenza, il totale affidamento. Nella maggior parte dei casi però le cose vanno molto bene. A volte non si è così sicuri di dare quelle opportunità che maturano la persona, che l'aiutano a superare un attaccamento un po' giovanilistico a se stessi. Il problema è sempre come fare perché tutto risulti armonico e porti il frutto di una crescita verso la maturità umana, cristiana e sacerdotale. In seminario si ha tutto preparato, le strade sono facilitate anche se si è chiamati a svolgere molti servizi.

Il problema è il dopo, il passaggio dal seminario alla vita in parrocchia?

Ci chiediamo se i nostri alunni, una volta che entrano nella fase adulta della loro vocazione, nelle parrocchie sono in grado di assumersi le responsabilità. Per tutti i sacerdoti il passaggio dal seminario alla parrocchia costituisce sempre un certo trauma. Se c'è un fondamento consolidato tutto si risolve gradualmente negli anni. Vorremmo essere sicuri di mettere questo fondamento solido.

Un anno fa lei annunciò a Benedetto XVI, proprio in occasione della sua visita, che il seminario avrebbe preparato un testo con le linee generali e le indicazioni pratiche riguardanti la vita della vostra comunità.

Il testo l'abbiamo scritto e lo consegneremo ai seminaristi all'inizio della Quaresima. Ci hanno lavorato i seminaristi stessi in assemblee e nei gruppi di cui ho parlato. Sono poche pagine che esprimono le linee fondamentali da seguire come punto di riferimento e come regola di vita personale.

Quali sono i punti centrali?

Sono tre. Il primo riguarda la domanda d'ingresso: dobbiamo renderci conto se la motivazione è servire il Signore e la Chiesa o altro. Il secondo punto: nella formazione bisogna tenere conto di come Gesù ha scelto. Si tratta di avere come orizzonte del ragionamento le dinamiche del Vangelo riguardo ai chiamati. Il terzo punto interessa la scansione degli anni in seminario.

Quali sono i passi progressivi del seminarista nella formazione?

Pensiamo i sei anni del seminario in questo modo: i primi due, che corrispondono allo studio della filosofia, sono indirizzati ancora a una comprensione di sé, al discernimento: capire se stessi e la vocazione. Una base necessaria per giungere all'inizio del terzo anno a una scelta più consapevole. Quindi nel terzo anno il seminarista si pronuncia ufficialmente per l'ammissione agli ordini, sulla volontà di proseguire il cammino. E la Chiesa accoglie questo desiderio. Infine negli altri tre anni (lettorato, accolitato, diaconato) progressivamente si costruisce la figura del pastore, legato alla parola di Dio, ai sacramenti, al servizio. Abbiamo scelto un verbo per ogni periodo: cercare (i primi due anni), trovare (il terzo anno), dimorare (gli altri tre anni) in Cristo dinamicamente per costruirsi come vero pastore.

Come si aiutano i giovani a capire se c'è in loro la vocazione al sacerdozio?

Il ruolo che sta assumendo il nostro seminario è di riferimento nell'organizzare incontri vocazionali di preghiera per piccoli gruppi: dieci o quindici ragazzi. In questi gruppi ci sono tra i 2 e i 4 giovani che scelgono di fare un anno propedeutico. Inoltre i parroci ci fanno incontrare i giovani che manifestano un progetto vocazionale. La diocesi di Roma, poi, ha appena aperto un nuovo servizio diocesano per le vocazioni.

Il Papa visita il seminario per la festa patronale della Madonna della Fiducia. Cosa rappresenta questa devozione?

È una devozione molto forte nel clero romano. I 1.200 ex alunni sono legatissimi a questa immagine che caratterizza in maniera molto precisa la spiritualità del seminario. L'immagine viene da Todi. Si deve a una monaca clarissa del settecento, Isabella Fornasari, che faceva dipingere icone mariane per portarle agli ammalati. Il gesuita padre Crivelli ricevette una grazia pregando proprio davanti all'immagine della Madonna della Fiducia. La portò, per devozione personale, al collegio romano. Nel 1774, per via della soppressione dei gesuiti, i seminaristi romani entrarono nel collegio e trovarono l'immagine. La comunità del seminario l'ha poi portata con sé nelle diverse sedi fino all'attuale cappella qui al Laterano. La devozione si è incrementata soprattutto durante la prima guerra mondiale. Ben 110 seminaristi, infatti, partirono per il fronte. Quelli rimasti, con il rettore Spolverini, fecero voto alla Madonna della Fiducia per il ritorno dei loro amici. Tornarono tutti.

(©L'Osservatore Romano - 2 febbraio 2008)

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