18 ottobre 2008
Il Card. Bertone e Mons. Fisichella rileggono la «Fides et ratio». Il ruolo del card. Ratzinger nell'elaborazione dell'enciclica (Osservatore Romano)
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Il cardinale segretario di Stato e il rettore della Pontificia Università Lateranense rileggono la «Fides et ratio»
Una meravigliosa architettura
Pubblichiamo la prima parte dell'intervento del porporato al convegno "Fiducia nella Ragione" in corso alla Pontificia Università Lateranense in occasione del decimo anniversario dell'enciclica Fides et ratio.
di Tarcisio Bertone
Da Papa Benedetto XVI questa mattina avete avuto modo di ascoltare una parola di incoraggiamento e di stimolo a riflettere e difendere la "fiducia nella ragione", come recita il tema di questo vostro incontro. La verità della rivelazione - vi ha ricordato - non si sovrappone a quella raggiunta dalla ragione, ma la purifica e la innalza permettendo così di dilatare i propri spazi per inserirsi in un campo di ricerca insondabile come il mistero. Queste tematiche sono molto care al Papa e non tralascia occasione per affrontarle da angolature diverse e convergenti.
Penso, tra l'altro, alla magistrale lezione di Ratisbona, al discorso non pronunciato per l'Università romana della Sapienza e a quello più recente pronunciato al Collège des Bernardins a Parigi, nell'incontro con il mondo della cultura.
Tutto questo in continuità con ciò che ha caratterizzato il suo passato di teologo, di pastore e soprattutto di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. E precisamente in questa veste ha dato un contributo determinante all'elaborazione della Fides et ratio. Quale segretario di questo dicastero, ho avuto l'onore e il piacere di collaborare con il cardinale Ratzinger in tutto l'iter che ha portato alla pubblicazione di detta enciclica.
E, proprio facendo appello a ricordi ed esperienze personali, cercherò di ricostruire questi interessanti momenti e fasi sviluppando brevemente il tema che mi è stato affidato: "Genesi dell'elaborazione dell'enciclica: testo e contesto".
Certo, ampio potrebbe essere il discorso, ma per esigenze di tempo riassumerò i vari passaggi, lasciando ad altre occasioni ulteriori approfondimenti. Inizierò con una sintetica analisi di quella che vorrei chiamare preistoria dell'enciclica.
Il tema del rapporto tra fede e religione e tra verità e libertà è sempre stato a cuore a Papa Giovanni Paolo II. Karol Wojtyla come professore di filosofia e antropologia, si era sempre interessato delle correnti filosofiche contemporanee e, da Papa, amava organizzare a Castel Gandolfo, durante il soggiorno estivo, dei meeting con professori ed esperti di varia estrazione. Pertanto già nel 1986, colpito da ciò che diverse mode culturali andavano sempre più diffondendo, la dimissione cioè della ragione dalla sua capacità di conoscere il vero, aveva stilato un progetto di documento esattamente sul nostro tema, di una decina di pagine.
Poi però, emergendo sul panorama mondiale tutta una serie di problemi morali di fondo - per esempio: l'esistenza del vero morale, la possibilità di definire il bene e il male oggettivo (l'intrinsece malum), e così via - come pure una catena di problemi morali specifici, particolari, o categoriali, come quelli concernenti la bioetica, egli preferì dare la precedenza a un'enciclica che affrontasse tali "emergenze dottrinali e morali" e pubblicò nel 1993, quindici anni or sono, la Veritatis splendor. Non volle tuttavia accantonare il tema precedente e il promemoria del Papa fu consegnato e spiegato a un illustre esperto, il belga professor André-Mutien Léonard, per una elaborazione organica di un progetto. Ma egli fu nominato vescovo di Namur nel 1991. Così il testo passò al gesuita padre Peter Henrici, della Gregoriana, perché stendesse una prima bozza di enciclica. Così fece, ma anch'egli nel 1993 fu nominato vescovo ausiliare di Coira in Svizzera, e quindi non potè proseguire nell'impresa.
A ogni modo, un primo testo organico poté essere presentato, nel 1995, alla plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, composta da cardinali e vescovi esponenti della cultura internazionale - come Ratzinger, Lehmann, Eyt, Biffi, Tettamanzi, Connell, Pell, Cañizares, e così via. Dalle osservazioni emerse in quella sede, grazie anche all'aiuto determinante di esperti consultori, fu articolata una nuova redazione consegnata al Santo Padre, il 18 giugno 1996, durante un incontro di studio. Il Papa portò con sé il testo durante le vacanze in Valle d'Aosta nel luglio 1996. Studiò la bozza con due amici polacchi, il professor Tadeusz Styczen e monsignor Józef Zycinski, e, di ritorno a Roma, inviò il testo alla Congregazione per la Dottrina della Fede con ben ottanta pagine di osservazioni. Nel frattempo l'enciclica, data in esame a una mezza dozzina di filosofi ecclesiastici e laici, che a loro volta stilarono i loro rilievi e suggerimenti, fu rielaborata e nuovamente messa nelle mani del Santo Padre e contestualmente, come è prassi, data in visione al teologo della Casa Pontificia, l'allora padre Georges Marie Martin Cottier. Giungiamo così all'estate del 1997, quando il Papa, durante le vacanze estive, si dedicò a rivedere l'editio typica del Catechismo della Chiesa Cattolica, ma non trascurò la rilettura dell'enciclica. Bisogna ancora notare che, nel frattempo, era pronto anche un altro documento, di carattere liturgico: la lettera apostolica Dies Domini. Si pose allora il dilemma: pubblicare prima la Fides et ratio oppure la Dies Domini? Vinse la Dies Domini che fu pubblicata il 31 maggio 1998. Nel frattempo il testo della Fides et ratio era tra le mani del Papa e costantemente sotto i suoi occhi; egli volle ancora arricchirla citando al n. 74, accanto agli antichi, alcuni autori più recenti: per l'ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della statura di Vladimir S. Solov'ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev, Vladimir N. Lossky. Il Santo Padre apportò ulteriori ritocchi e integrazioni, in costante intesa con il cardinale Joseph Ratzinger, coadiuvato dai consultori impegnati in tale importante impresa. Fu finalmente con la data del 14 settembre 1998 che si giunse al termine di questo itinerario che, in fin dei conti, è durato ben dodici anni. Durante il pranzo con il Papa, il 6 ottobre 1998, fu concordata la presentazione dell'enciclica; furono poi indicati i titoli di ventisei articoli su "L'Osservatore Romano" e altre iniziative a carattere pubblico.
Queste successive fasi, che ho rapidamente percorso, hanno portato alla stesura definitiva di un'enciclica che va considerata - quanto al suo testo, e vengo qui al secondo punto della mia relazione - come una meravigliosa costruzione architettonica articolata in sette capitoli, che offre una visione precisa, a tratti sofferta, del rapporto tra fede e ragione. Una costruzione che dimostra la solidità dell'inscindibile rapporto tra fede e ragione e di conseguenza tra filosofia e teologia, rapporto poggiante sui tre fondamentali pilastri descritti nei primi tre capitoli intitolati: il primo, La rivelazione sapienza di Dio, il secondo, Credo ut intellegam, e il terzo, Intellego ut credam.
Con il quarto capitolo entriamo nel vivo del tema con un approccio prevalentemente storico e qui, non a caso ritroviamo nel titolo la tematica stessa dell'enciclica: Il rapporto tra la fede e la ragione. Come in un meraviglioso affresco murale ci appaiono quindi le tappe fondamentali dell'incontro tra fides e ratio, dal discorso di Paolo all'Areopago, agli interventi di alcuni padri della Chiesa, e al grande teologo Tommaso d'Aquino, per poi giungere ai tempi moderni, dove sembra prevalere in larghi strati del pensiero, una perniciosa separazione tra fede e ragione. Con i successivi tre capitoli, il Papa offre a queste problematiche antiche e moderne le risposte sempre valide che formano il patrimonio dottrinale della Chiesa: il capitolo quinto parla degli Interventi del magistero in materia filosofica, nel capitolo seguente sono descritti i problemi dell'Interazione tra teologia e filosofia, e nel capitolo settimo le Esigenze e compiti attuali, esplicitando le esigenze della parola di Dio e i compiti irrinunciabili della teologia.
E siamo giunti alla conclusione dell'enciclica, nella quale, richiamandosi all'enciclica Aeterni Patris di Leone xiii, il Papa sottolinea nuovamente il valore della filosofia nei confronti dell'intelligenza della fede, il rapporto tra fede e ragione, e rivolge un appello a tutti - filosofi, teologi, formatori, scienziati, ricercatori, pastori e fedeli - chiedendo "di guardare in profondità all'uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo amore, e alla sua costante ricerca di verità e di senso". "Diversi sistemi filosofici - egli aggiunge - illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze". Ma - egli continua - "la grandezza dell'uomo non potrà mai essere questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all'ombra della sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all'amore e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé".
(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2008)
Ricerca di verità è ricerca di una Persona
Anticipiamo la conclusione della relazione dell'arcivescovo rettore della Pontificia Università Lateranense, e presidente della Pontificia Accademia per la Vita, al convegno "Fiducia nella Ragione". Nella prima parte il relatore analizza le cause che, lungo lo sviluppo del pensiero umano, hanno portato allo smarrimento di una visione unitaria e, per contro, alla frammentarietà del sapere; soprattutto nelle scienze empiriche. Se da un lato la specializzazione ha favorito l'approfondimento di alcune conoscenze, la frammentazione che si è sostituita all'unità si traduce di fatto in una duplice sfiducia nei confronti della ragione nel cogliere la verità e nel credere che esista ancora una sola verità. La separazione creata tra filosofia e scienza, tra filosofia e religione, tra società e individuo, tra politica ed economia ha indebolito la cultura ingenerando una crisi d'identità frutto di un relativismo referenziale nei valori costitutivi della cultura stessa. Con la secolarizzazione viene meno la certezza della verità. Anzi l'idea di raggiungerla sarebbe solo illusione. Tolta ogni certezza veritativa l'uomo stesso viene disintegrato. Ridotto alla polvere primigenia ormai può solo sperare nel soffio rigenerante della Parola di Dio.
di Rino Fisichella
È importante una breve ermeneutica di Fides et ratio per verificare più direttamente il pensiero sottostante. Il numero che contiene il richiamo all'unità del sapere è inserito all'interno del settimo e ultimo capitolo dell'enciclica, "Esigenze e compiti attuali". Già il titolo lascia trasparire l'idea sottostante: al termine della sua riflessione, il Papa intende diventare propositivo circa il compito che spetta alla Chiesa nel dare risposta al rapporto tra fede e ragione. Il contesto immediato del nostro numero parte dall'evidenziare le "esigenze irrinunciabili della Parola di Dio". La Sacra Scrittura - sostiene Fides et ratio - presenta in sé una visione filosofica dell'uomo e del mondo che coniuga insieme rivelazione e intelligenza personale: "La convinzione fondamentale di questa "filosofia" racchiusa nella Bibbia è che la vita umana e il mondo hanno un senso e sono diretti verso il loro compimento, che si attua in Gesù Cristo" (80). La creazione, l'uomo all'interno di essa, il problema del male e della libertà pongono la questione del senso in maniera inevitabile e richiedono una risposta. Il cristianesimo, inoltre, pone il mistero dell'incarnazione come la chiave interpretativa dell'enigma umano e della storia. Per questo Fides et ratio può concludere: "In questo mistero le sfide per la filosofia si fanno estreme, perché la ragione è chiamata a far sua una logica che abbatte le barriere in cui essa stessa rischia di rinchiudersi. Solo qui, però, il senso dell'esistenza raggiunge il suo culmine. Si rende intelligibile, infatti, l'intima essenza di Dio e dell'uomo" (80). La logica dell'enciclica prosegue nel mostrare l'attuale "crisi di senso" e la conseguente "frammentarietà del sapere" per il moltiplicarsi delle risposte che giungono dal pluralismo delle conoscenze scientifiche. La presenza di un inevitabile acuirsi del relativismo, non solo nell'ambito gnoseologico, ma purtroppo anche in quello etico, spingono Giovanni Paolo II a identificare alcune "esigenze" che la filosofia dovrebbe fare proprie se vuole rimanere nell'orizzonte di una conoscenza coerente alla sua epistemologia. L'unità del sapere, pertanto, viene identificato da Fides et ratio nel recupero della "dimensione sapienziale" (81) da parte della filosofia: "È necessario, anzitutto, che la filosofia ritrovi la sua dimensione sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita. Questa prima esigenza, a ben guardare, costituisce per la filosofia uno stimolo utilissimo ad adeguarsi alla sua stessa natura. Ciò facendo, infatti, essa non sarà soltanto l'istanza critica decisiva, che indica alle varie parti del sapere scientifico la loro fondatezza e il loro limite, ma si porrà anche come istanza ultima di unificazione del sapere e dell'agire umano, inducendoli a convergere verso uno scopo e un senso definitivi. Questa dimensione sapienziale è oggi tanto più indispensabile in quanto l'immensa crescita del potere tecnico dell'umanità richiede una rinnovata e acuta coscienza dei valori ultimi" (81). Questo orizzonte sapienziale, di fatto, ruota attorno alla domanda di senso, al riconoscimento che la ragione è capace di conoscere la verità e alla dimensione metafisica del sapere. In altri termini, l'enciclica propone la via per il raggiungimento dell'unità del sapere nel superamento della conoscenza relegata alla sfera della sperimentazione o delle scienze empiriche: "Desidero solo affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale e l'empirico, e voglio rivendicare la capacità che l'uomo possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica in modo vero e certo, benché imperfetto e analogico" (83).
Prima di giungere al nostro testo, Fides et ratio compie un ultimo passo che ritengo essere determinante. In una battuta, si viene a identificare il percorso che nel versante filosofico e teologico di dovrebbe compiere: "Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione" (83). Se si vuole, si è dinanzi solo a un cambiamento terminologico, ma il concetto permane identico. La sfida che si deve compiere è quella di ritrovare l'unità del sapere come condizione non solo per la filosofia e la teologia di poter dialogare tra di loro su contenuti autonomi e pur sempre reciproci, ma soprattutto per essere in grado di fornire al nostro contemporaneo la risposta di cui ha insaziabile bisogno: quella del senso. Privo di questo orizzonte di senso della propria esistenza, cade nei tentacoli della sola conoscenza empirica, sperimentale e diventa incapace di comprendere a pieno il suo mistero, la sua vocazione e il progetto della sua personale esistenza in questo mondo e in questa storia.
L'accenno conclusivo dell'enciclica al fatto che è necessaria una filosofia capace di svolgere un ruolo di mediazione con il peculiare sapere che proviene dalla rivelazione, permette di addentrarsi in un'ulteriore considerazione. L'unità del sapere ha un suo profondo richiamo e fondamento nell'istanza rivelativa perché il mistero dell'incarnazione fa emergere nello stesso tempo sia la verità offerta a ognuno nella storia che è chiamato a vivere sia la risposta ultima e definitiva alla domanda di senso. Il cristianesimo vive della rivelazione di Dio nella storia. Resta, inevitabilmente il grande problema ancora irrisolto per molti versi: come riuscire a individuare all'interno della Parola di Dio quanto è oggetto di rivelazione per la nostra salvezza. Qui subentra la tematica del rapporto verità rivelata e interpretazione della Scrittura. È innegabile che siamo dinanzi a un'istanza ermeneutica a cui nessuno può sottrarsi; questa, comunque, non può rifiutarsi di confrontarsi con l'istanza veritativa immessa nella rivelazione di Gesù Cristo. Quanto Gesù ha rivelato non può essere confinato nello spazio del suo tempo; proprio perché è "rivelazione" di Dio all'umanità nella storia, porta con sé l'istanza di universalità che non le può essere tolta. È evidente che siamo dinanzi alla pretesa cristiana di presentare un evento particolare che ha in sé le caratteristiche universali.
Se si accetta l'esigenza dell'unità del sapere è necessario, pertanto, ritornare alla questione di sempre: il senso dell'esistenza. Non tanto, quindi, perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla, ma perché io esisto in questo tempo e cosa sarà della mia vita dopo il tempo che mi è concesso di vivere. Diverse scappatoie sono già state trovate nella storia del pensiero; eppure non hanno esaurito la domanda. Al contrario, essa permane con la sua forza di provocazione che attende una risposta che soddisfi. L'identità personale, d'altronde, è intimamente legata con la risposta che ogni singola persona è in grado di addurre. Il fondamento su cui costruire non è unico; il problema è se esso sia realmente in grado di tenere insieme la persona nella pluralità delle sue manifestazioni e nella dinamica della sua esistenza in relazione agli eventi e alle esperienze che compie.
L'unità del sapere, alla fine, trova proprio nella possibilità di incontrarsi con la fede il suo termine ultimo. La fede non è un atto estraneo alla persona, ma è il suo esprimersi in pienezza di libertà. Non è un caso che la concezione cattolica della fede richieda che ogni atto sia carico di intelligibilità. L'assioma classico fides si non intelligitur nulla est, ha la sua valenza veritativa proprio in questa unità profonda che lega fede e conoscenza. Non una a scapito dell'altra né una in competizione con l'altra; entrambe vivono di un profondo equilibrio che consente di vedere attuato il desiderio di ogni persona di conoscere la verità e di poterla raggiungere. Il senso dell'esistenza, pertanto, si fonda su un'unità che abbraccia in sé ciò che è peculiare del cristianesimo: un'attenzione a tutta la persona, senza sminuirla in nulla, nella sua capacità di poter abbandonare se stesso in un atto di amore pieno e duraturo in colui che è la sorgente stessa dell'amore. Il senso di un percorso trova il suo fine nella realizzazione di ciò che aveva spinto il suo movimento iniziale: il senso alla luce dell'amore.
Con ragione, quindi, Fides et ratio può affermare: "L'uomo si trova in un cammino di ricerca, umanamente interminabile: ricerca di verità e ricerca di una persona a cui affidarsi. La fede cristiana gli viene incontro offrendogli la possibilità concreta di vedere realizzato lo scopo di questa ricerca. Superando lo stadio della semplice credenza, infatti, essa immette l'uomo in quell'ordine di grazia che gli consente di partecipare al mistero di Cristo, nel quale gli è offerta la conoscenza vera e coerente del Dio Uno e Trino. Così in Gesù Cristo, che è la Verità, la fede riconosce l'ultimo appello che viene rivolto all'umanità, perché possa dare compimento a ciò che sperimenta come desiderio e nostalgia" (33).
(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2008)
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