11 dicembre 2007

"Spe salvi": il commento di Lee Harris per "Il Foglio"


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QUI SI SPIEGA MOLTO BENE L’ENCICLICA

Il filosofo americano Lee Harris offre idee chiare e distinte sulle ragioni illuministe della critica del Papa al nuovo Illuminismo. Rileva l’ingenua bontà del vecchio Illuminismo • La crisi dell’occidente sta nel non aver più fede in nessuna visione secolarizzata del Regno di Dio

Lee Harris

La recente enciclica Spe salvi di Papa Benedetto XVI costituisce l’articolato sviluppo di una dichiarazione fatta da san Paolo nella sua epistola ai Romani: attraverso la speranza noi raggiungiamo la salvezza.

Ma è ben più di un semplice commentario sul testo biblico: è una sfida radicale sia al mondo moderno sia alla cristianità, che merita di essere considerata con la massima attenzione non soltanto dai cattolici o dai cristiani ma da chiunque sia interessato al futuro dell’uomo.

Nel discorso di Ratisbona Benedetto aveva parlato della necessità di una critica della modernità; nell’enciclica “Spe salvi” si spinge ancora oltre e sostiene che “bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre imparare di nuovo a comprendere se stesso a partire
dalle proprie radici”. L’autocritica è un’attività già di per sé profondamente radicata nella speranza. Critichiamo noi stessi nella speranza di diventare migliori. Ciononostante, basta una piccola riflessione per capire che l’autocritica si contrappone agli istinti della natura umana: siamo naturalmente propensi a criticare gli altri e detestiamo essere l’oggetto delle critiche altrui.
Per quale motivo, dunque, dovremmo impegnarci in un’attività così innaturale come l’autocritica? Basta osservare il corso della storia per rendersi conto che, nel complesso, l’umanità ha mostrato scarso interesse per l’autocritica. Gli antropologi ci dicono che molte tribù primitive si considerano come i Signori della Creazione, e perciò non sentono alcun bisogno di cambiare alcunché di se stesse – si tratta, in realtà, dello stesso ingenuo narcisismo etico che ha colpito parecchie civiltà superiori, come quella degli antichi greci, che non aveva alcuna idea della nozione di progresso. Chi non vede alcun motivo per essere insoddisfatto di se stesso o dell’ordine sociale in cui vive non ha alcun interesse per il progresso – anzi, è incapace di comprenderne lo stesso concetto. Secondo Benedetto XVI, un’autocritica dell’era moderna deve cominciare col riconoscimento del fatto che il concetto occidentale di progresso ha le proprie radici più profonde nell’idea della speranza cristiana.
E’ stato il cristianesimo a proclamare l’avvento di un Regno considerato infinitamente superiore a qualsiasi regno umano di questo mondo. Tale Regno sarebbe stato una comunità etica in cui ognuno segue la Regola Aurea e sarebbe stato distinto dall’assenza del male assoluto, nella forma del peccato originale e della sofferenza. Ai cristiani veniva raccomandato di adattarsi allo stato di cose del mondo presente, accettando la legittima autorità di coloro che li governavano; ma non gli era più consentito accettare la finalità dello status quo prevalente, attorno a loro o dentro di loro. Erano convinti che questo mondo sarebbe stato alla fine sostituito da un mondo migliore.

L’Illuminismo europeo è stato la creazione di uomini e donne che avevano ereditato la speranza cristiana secondo cui un mondo migliore è possibile, e non semplicemente un’utopica illusione. I protagonisti principali dell’illuminismo erano fermamente convinti che il mondo poteva essere radicalmente migliorato e portato persino alla perfezione.

Voltaire, Diderot, Condorcet e Kant non ebbero alcuna difficoltà a condannare gli usi e i costumi di altre culture e a vantare la superiorità della propria. Il relativismo etico e culturale era totalmente estraneo alla loro mentalità, esattamente come il nichilismo etico – anzi avrebbero fatto fatica a individuare una differenza tra il relativismo e il nichilismo. La loro ottimistica fiducia nella possibilità di un futuro migliore era di natura laica, ma non per questo meno intensa dell’ottimismo ultramondano dei primi cristiani. Tuttavia, come ci ricorda lo stesso Benedetto, il XX secolo ha suonato la campana a morte per le ingenue speranze illuministiche nel progresso laico. La stessa scienza e la tecnologia, che avrebbero dovuto garantire l’inevitabilità del progresso laico, si sono dimostrate delle alleate alquanto ambigue.

Benedetto XVI cita il filosofo marxista tedesco Theodor Adorno e la sua aspra critica su questa fede malriposta. Non esiste alcuna legge naturale che assegni lo stesso quoziente di intelligenza a coloro che hanno i medesimi alti principi morali. I seguaci di Hitler e Stalin hanno usato la scienza e la tecnologia per scatenare forze demoniache, e queste stesse forze continuano a puntarci gli occhi contro anche oggi.

La crisi dell’occidente contemporaneo, secondo Benedetto XVI, sta nel fatto che non abbiamo più fede in nessuna delle visioni secolarizzate del Regno di Dio. Queste visioni sono state brutalmente mandate in frantumi dalla storia. La grande speranza dell’umanità, sorta nell’Illuminismo europeo, è stata spezzata proprio da coloro che hanno cercato di realizzarla nella rigida sostanza della concreta storia umana.

In effetti, molti di noi continuano a parlare come se avessero ancora fede negli ideali dell’Illuminismo; ma il nostro cuore e la nostra anima non vi credono più.
Verso la fine del XIX secolo Nietzsche ha raccontato la sua famosa parabola dell’uomo che un giorno giunge in una città e proclama: “Dio è morto, e siamo stati noi a ucciderlo”.
Gli abitanti della città pensano che sia un pazzo, ma soltanto perché vivono nell’illusione di credere ancora in Dio, quando invece nel loro cuore e nella loro anima non alberga più alcuna fede.

Nel discorso di Ratisbona e nell’enciclica “Spe salvi” Benedetto interpreta il ruolo del pazzo di Nietzsche.

Ma il messaggio che annuncia è diverso, ed è in sostanza questo: “L’Illuminismo è morto e siamo stati noi a ucciderlo. Non sappiamo più che cosa sia il progresso e cosa la decadenza. Non sappiamo più qual è la parte giusta della storia e quale la sbagliata. Ci riempiamo la bocca con gli stereotipi dell’Illuminismo, ma non abbiamo più il coraggio di imporre i nostri valori illuminati alle culture che predicano l’intolleranza e l’oscurantismo.
Abbiamo perso completamente la fiducia nelle vecchie teorie del progresso laico. Non sappiamo se stiamo andando avanti o indietro. Non abbiamo più nulla che ci guidi”.

In un mondo traboccante di apocalissi laiche

Se l’occidente moderno era definito dalla sua salda, benché ingenua, certezza nel progresso laico, l’occidente post moderno è caratterizzato dall’eclissi della speranza laica.
Il mondo che sta di fronte alla maggior parte di noi è un mondo di cui abbiamo paura, traboccante di apocalissi laiche, come il riscaldamento globale o il jihad nucleare.
Peggio ancora, è un mondo che si è dimostrato profondamente incapace di redimersi, un mondo che a nostro giudizio non può più essere riparato per mezzo dell’istruzione, della scienza e della tecnologia. Non c’è quindi da stupirsi se a noi risulta così difficile affrontare di petto la morte dell’Illuminismo, perché lascia un vuoto che molti non sanno più come riempire – quel vuoto spirituale che ci rimane quando ci è strappato via l’ultimo barlume di speranza.

Kant disse che c’erano tre grandi questioni.
Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare?
In che cosa posso sperare?


Ma è forse possibile sapere che cosa devo fare se non posso sapere in che cosa posso sperare? Se sono giunto alla conclusione che non c’è speranza per il mondo, per l’umanità, per il pianeta, a che scopo impegnarsi in qualcosa?
La soluzione più intelligente non sarebbe forse quella di adottare un atteggiamento di assoluto quietismo, rassegnandoci subito a lasciare che avvenga il peggio?
Nei campi di concentramento tedeschi c’era un gruppo di prigionieri che veniva chiamato dagli altri detenuti Muselmänner (ossia, “musulmani”). Gli era stato affibbiato questo appellativo perché avevano completamente perso la volontà di vivere e si
erano rassegnati allo spaventoso orrore della propria esistenza. A differenza del condannato a morte, non erano più capaci di sperare contro ogni speranza. Avevano rivolto il viso contro il muro ed erano pronti a morire. La loro patetica condizione è la prova che anche la speranza più disperata, persino la speranza fondata su
una pura illusione, è sempre meglio che nessuna speranza.
Tragicamente, la condizione psicologica dei Muselmänner dei campi di concentramento è toccata in sorte a buona parte dell’umanità per tutto il corso della storia.

Nella sua nuova enciclica, il Papa racconta la commovente storia di Josephine Bakhita, una donna africana presa schiava da bambina, che ebbe una vita altrettanto priva di qualsiasi speranza di quella dei Muselmänner.
Ciononostante, Bakhita riuscì a trovare la speranza, nella forma della fede cristiana.
Non nella fede sancita nel dogma, ma nella gentilezza dei suoi nuovi padroni italiani, che, a differenza dei suoi precedenti padroni, non la trattarono con crudeltà. Improvvisamente, Josephine Bakhita poté immaginare un mondo in cui i potenti non maltrattavano i deboli e gli oppressi. Questa rivelazione le diede una speranza che prima non aveva mai avuto – e come avrebbe potuto averla finché qualcuno non gliela avesse offerta soltanto a parole ma anche nei fatti?

Per mezzo di quest’incisiva storia Benedetto XVI ci esorta a cercare un rinnovamento nelle radici storiche della speranza cristiana.

Molto prima della nascita dell’idea del progresso nell’Europa del XVIII secolo, come ci ricorda Benedetto, vi furono schiavi greci e romani che scoprirono la rivelazione della speranza nel comportamento dei primi cristiani. Benedetto non ha alcuna difficoltà a riconoscere che il cristianesimo era una religione per gli schiavi; anzi, vuole sottolineare proprio questo: il cristianesimo era la sola religione che poteva avere significato per gli schiavi, ossia per coloro che erano privati di ogni speranza. Al contrario, Nietzsche attaccò il cristianesimo proprio per questa ragione: era una religione adatta esclusivamente agli schiavi.

Nietzsche disprezzava il cristianesimo e invocava la rinascita degli ideali eroici della Grecia, incarnati nel suo mito del superuomo. Tuttavia, quando la speranza cristiana apparve sulla scena del mondo antico, l’epoca eroica che Nietzsche ammirava così tanto era già tramontata da tempo. L’energia irriflessiva dell’era eroica era stata sostituita dallo stoicismo e dall’epicureismo, decadenti filosofie di un esaurimento morale, per le quali o si deve sopportare il dolore del mondo (come Epitteto con le sue catene) o si deve rinunciare completamente a esso (come Epicuro nel suo giardino).
Quel che Nietzsche non riusciva a comprendere, era che gli antichi avevano un disperato bisogno della veemente speranza in un mondo migliore che sarebbe venuto con l’avvento della cristianità, esattamente come il nostro mondo d’oggi ha un bisogno disperato di rinnovare quella speranza. Dal punto di vista spirituale, il mondo odierno ricorda quello antico, nel senso che anche noi cerchiamo di consolarci con filosofie dell’esaurimento etico, come il materialismo e il determinismo, con ideologie, cioè, che sono pensate per giustificare la rassegnazione all’inevitabile e il rifiuto di ogni trascendenza.
Come possiamo sperare di rinascere, se il nostro destino è quello determinato da forze al di fuori del nostro controllo sin dal primo nanosecondo del big bang?

Papa Benedetto crede che il rinnovamento della speranza debba iniziare dal ritorno alle radici storiche della speranza cristiana.

Ma è realistico, data l’attuale crisi della fede?
Se non riusciamo a tradurre la metafora del Regno di Dio in termini laici, come fecero Marx e altri, che bene può rappresentare quella metafora per noi che viviamo in un tempo in cui il sovrannaturale non ha più alcun significato concreto? Possiamo tornare alla mentalità dei primi cristiani, che attendevano l’imminente venuta di Gesù nella carne, intesa in senso letterale? Alcuni ci riescono, come testimonia l’esistenza di certe sette come quella dei testimoni di Geova, ma per la maggior parte degli esseri umani moderni la vivida convinzione della Seconda venuta è al di là delle proprie capacità: come avrebbe detto William James, quella speranza per loro non è più un’opzione “viva”.

Oggi la cristianità ha legioni di colti dispregiatori, per usare una felice espressione di Friedrich Schleiermacher, ma ha anche un vasto numero di colti ammiratori. I primi ultimamente hanno ricevuto grande attenzione e i loro libri dispongono di un vivace mercato. I secondi, d’altra parte, spesso parlano con riverenza della tradizione cristiana; a differenza dei colti dispregiatori, riconoscono che la cristianità è stata un’enorme forza di civilizzazione nella storia umana, responsabile dello sviluppo di gran parte degli aspetti della civiltà occidentale di cui siamo più fieri.

Pensano che, nel complesso, essa sia stata una cosa buona, ma non vi ripongono la loro fede. La speranza cristiana è una splendida favola, ed è negli interessi dell’umanità crederci, ma questi suoi dotti ammiratori, nel bene e nel male, non riescono a condividere quella speranza.

Il problema è che nessuna religione può essere tenuta in vita dai sostenitori esterni.
Qualcuno deve avere fede. Qualcuno deve credere davvero nella speranza di un aldilà, di una Seconda venuta, di un Regno di Dio che miracolosamente guarirà il mondo dalle sofferenze e darà a ciascuno quanto merita secondo le opere compiute durante la vita terrena
.

Papa Benedetto l’ha compreso, e il messaggio della “Spe salvi” è un appello coraggioso e radicale a guardare nuovamente al significato più vero della fede cristiana.

Sin dai tempi del teologo danese Søren Kierkegaard è comune parlare di “salto della fede”. Chi sa fare questo salto diventa cristiano, mentre chi non ci riesce rimane dubbioso e non si converte. Tra quelli che non riescono a fare il salto ci potrebbero
essere i dotti ammiratori della cristianità, che si astengono dal frapporre ostacoli sul cammino di chi ci riesce e potrebbero
persino lodare la virtù di queste persone straordinariamente dotate. Potrebbero addirittura dire: “Mi piacerebbe riuscire a fare quel salto, ma, sfortunatamente, incontro troppi ostacoli in cui inciampo già prima di raggiungere l’orlo dell’abisso”. E’ questa metafora che Papa Benedetto implicitamente attacca quando dice che la fede è speranza. La speranza ci impone di credere che qualcosa sia possibile, che possa succedere.
Non ci sono salti della speranza, anzi si dice che la speranza nasce, entra nelle nostre vite, che troviamo la speranza, che si vede un barlume di speranza. Non si tratta di un qualcosa che facciamo noi, come il salto della fede, ma di qualcosa che ci viene
incontro.
Gli schiavi, nel corso della storia, sono stati estranei alla speranza, come la schiava sudanese Bakhita, che non ha fatto alcun salto della speranza, perché non ne aveva bisogno. La fede le è andata incontro facendosi strada tramite la rivelazione della speranza, che le è giunta da una fonte sino ad allora inattesa.
E’ stato grazie alla speranza che Josephine è stata redenta. Ecco il perché del titolo dell’enciclica, “Spe salvi”, ovvero salvati dalla speranza, e non da un salto della fede, perché quel salto dipende da noi. La speranza invece no. Tornando alle radici della fede cristiana e ritrovandola nel miracolo della speranza cristiana, Papa Benedetto ci offre un’autocritica della cristianità moderna che è in grado di renderla opzione viva sia per i suoi dotti dispregiatori sia per i colti ammiratori.

A chi non può “accettare” la cristianità perché non riesce a fare il necessario salto di fede, Benedetto XVI dice in realtà: “Io non vi chiedo di saltare oltre un abisso impossibile.
Vi invito a riflettere sul miracolo della speranza. La speranza non è un qualcosa di dato. E’ un dono. Sappiamo chi o cosa ringraziare per questo dono? Sappiamo da dove viene? No, a queste domande scienza e ragione non offrono risposta. Guardando alla natura crudele e disperata delle cose, nessuno avrebbe potuto predire che la speranza cristiana sarebbe entrata nel nostro mondo. Il fatto che noi, che ne beneficiamo tutti, non siamo grati della sua comparsa tra di noi è un segno che abbiamo dimenticato la fonte dei nostri stessi ideali etici, e potremmo persino aver smarrito la comprensione della sua infinita preziosità. Che non siamo più mossi a stupore davanti alla presenza della speranza della luce in un mondo tanto buio è la prova del fatto che corriamo il rischio di lasciar spegnere quella luce”.

L’occidente è stato salvato dalla bruta legge della giungla grazie alla speranza radicale che ci potrà essere un mondo in cui il leone giacerà con l’agnello e gli uomini vivranno insieme in una comunità di santi. Nessuno stoico, epicureo, materialista o determinista potrebbe mai far propria una speranza tanto irrealistica, ragion per cui essa è stata afferrata con tanta bramosia dagli schiavi e da chi non aveva nulla da perdere. Quando Papa Giovanni Paolo II ha canonizzato Josephine Bakhita, ci ha voluto ricordare quanto tutti noi dobbiamo a chi ha redento l’umanità sperando nell’impossibile. Questa è la lezione, profonda e commovente, su cui Papa Benedetto ci ha invitati a meditare nella
sua magnifica enciclica “Spe salvi”: siamo stati salvati dalla speranza. La speranza redime non solo chi la possiede, ma anche chi è stato semplice testimone dei suoi effetti sugli altri. Se Josephine Bakhita è riuscita a trovare la speranza nella sua vita, questo deve ispirare noi tutti a trovarla nella nostra. Questa è l’essenza della speranza cristiana. Non un solitario salto della fede, ma una gioiosa epifania che ci unisce in una santa comunione. Non un relitto morto del passato, ma una promessa eternamente nuova per il futuro. Nessuno può dire da dove venga, né dirci dove ritrovarla una volta che è svanita.

© Copyright Il Foglio, 11 dicembre 2007

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