8 agosto 2008

Le Chiese cristiane dopo la Lambeth Conference (Bromuri per Sir)


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ANGLICANI - Unite nella preoccupazione

Le Chiese cristiane dopo la Lambeth Conference

Si è conclusa la Lambeth Conference (16-31 luglio), che si svolge ogni dieci anni. Vi hanno partecipato, sia pure con vistose defezioni, 650 vescovi della Comunione anglicana, in rappresentanza delle 44 Chiese nazionali e regionali, con un nulla di fatto, dicono i giornali. Un senso di delusione e di tristezza ha accompagnato i commenti e si è detto che, dalla sua costituzione ai tempi di Enrico VIII, la Chiesa anglicana non ha mai subito una crisi così seria.
In realtà, un risultato positivo si è avuto, in quanto è stata evitata la divisione paventata e minacciata, tra la corrente tradizionalista e quella progressista. L’arcivescovo Williams Rowan è riuscito ad ottenere una moratoria sulle decisioni circa l’episcopato alle donne e la consacrazione a persone dichiaratamente gay, portando l’attenzione e allargando il discorso sulle due questioni che stanno a cuore a tutti, tradizionalisti e progressisti: la missione della Chiesa nel mondo e l’identità della Comunione anglicana. Su questi due temi ha invitato i vescovi a continuare la riflessione, la preghiera e il confronto in un dialogo sereno e rispettoso.
Un programma degno di grande rispetto e fonte di altrettanta perplessità, perché oltre ai milioni di anglicani “fedeli e biblici”, come ha detto Rowan, a complicare le cose è la convinzione, data per scontata, che il matrimonio o l’ordinazione degli omosessuali sia una questione di diritti umani. Nonostante ciò, avere evitato la rottura, affidandosi all’opera dello Spirito Santo, all’azione di studio e ricerca sia sui temi in discussione ma soprattutto sulle gerarchie ecclesiastiche e sull’esercizio dell’autorità nella Chiesa a sostegno dell’unità, è un risultato certamente positivo.
Tra le due correnti anglicane presenti nelle varie Chiese, alcune più progressiste e altre più tradizionaliste, sulla questione della sessualità e quella dell’ordinazione sacra, la contrapposizione è forte e aspra, espressa con un linguaggio di dichiarato disprezzo, troppo spesso usato tra i membri di una stessa Chiesa.
È in atto, inoltre, da parte di molti membri dell’episcopato, seguiti dalle loro comunità, la richiesta di essere accolti nella Chiesa cattolica, la quale, come in passato, ha assunto una posizione prudente di attesa, non volendo contribuire alla divisione della Comunione anglicana. È stato detto che non poco peso avrà, in un esito o in altro, la posizione della Santa Sede. D’altra parte, come in passato, la Chiesa romana non può respingere chi bussa alla porta per entrare, avendo motivate ragioni, e non può neppure favorire la lacerazione di una Chiesa così grande, sparsa per tutto il mondo con 75 milioni di fedeli, articolata in diocesi, parrocchie, che merita tutto il rispetto, di cui il Concilio Vaticano II (Unitatis Redintegratio, n.13) afferma che tra le comunità nelle quali continuano a sussistere in parte le tradizioni e le strutture cattoliche, “tiene un luogo speciale la Comunione anglicana”.

In questo senso si sono mossi i cardinali Kasper e Dias, che hanno portato il saluto di Benedetto XVI, ed hanno espresso il punto di vista cattolico, in amicizia, senza voler influenzare le decisioni interne della Chiesa anglicana, ma anche senza timidezza o calcolo diplomatico, portando le ragioni della comune fede nel Vangelo, secondo la tradizione apostolica.

Uno degli aspetti positivi di tutta la vicenda, che meriterà di essere seguita, come un segno dei tempi e un segnale per il futuro cammino ecumenico, è la preoccupazione delle altre Chiese, venute come in soccorso ad una sorella in difficoltà per trarla in salvo dal pericolo di perdersi. Così da parte della Chiesa ortodossa e così dai cattolici. Il lungo, dettagliato e appassionato, discorso del card. Kasper è un eloquente indizio di quanto sia profondo e sentito il legame ecumenico che si è istaurato nei 40 e più anni di dialoghi, incontri, dichiarazioni di amicizia e fraternità a tutti i livelli. “Non abbiamo scherzato finora”, sembra aver detto Kasper, quando abbiamo sottoscritto documenti di convergenza e ci siamo trovati insieme a condividere convincimenti, valori e speranze di unità tra noi. Il titolo della relazione, che Kasper era stato invitato a tenere, era “Riflessioni cattoliche sulla Comunione anglicana” e il sottotitolo: Dalla tradizione apostolica una risorsa per il futuro(La relazione in Osservatore Romano del 31 luglio). Il cardinale, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, ha riproposto la fede apostolica come metro di giudizio e si è riferito ai documenti dell’Arcic e dell’Iarccum (sigle che indicano i colloqui bilaterali tra teologi cattolici e anglicani). Qualche evangelico italiano ha pensato che questo intervento sia stato un’intrusione cattolica nei fatti interni della Chiesa anglicana. Non voleva essere ciò, come è stato chiaramente precisato dallo stesso relatore. D’altra parte, dopo l’affermarsi del movimento ecumenico, un’interpretazione di questo tipo riporterebbe le Chiese e comunità cristiane in una fase d’isolamento e di autoreferenzialità, come se le singole comunità fossero un affare privato. Tutta la prassi di questi anni si è svolta nel segno del prendersi cura gli uni degli altri, rispettando le decisioni conclusive che spettano, certamente, alle singole Chiese. Questo è il senso del dialogo e il valore di tutti i documenti di natura ecumenica, che sono offerti alle Chiese e alle loro autorità, alla cui libertà compete di farli propri o meno. Ma sono pure stimoli, provocazioni che devono suscitare l’interessamento di tutti i battezzati per la sorte della fede e la missione nel mondo. Interessarsi, pronunciarsi ed, eventualmente, correggersi a vicenda con fraternità e umiltà, questo è nella prassi ecclesiale da sempre e un preciso monito evangelico.

Elio Bromuri

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