9 febbraio 2008
Card. Jean-Louis Tauran: "Quante volte si è già sepolta la Chiesa..." (Osservatore Romano)
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Non è davvero inevitabile la fine del cristianesimo in Occidente
Quante volte si è già sepolta la Chiesa
A Roma, al Centro culturale Saint-Louis de France, si è svolto nei giorni scorsi un convegno sul futuro del cristianesimo in Occidente. Pubblichiamo, in una nostra traduzione, il testo dell'intervento del cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.
di Jean-Louis Tauran
Cardinale Presidente del Pontificio Consiglio
per il Dialogo Interreligioso
Quale futuro per il cristianesimo in Occidente? La domanda non è nuova. Nel 1977 Jean Delumeau pubblicava un saggio dal titolo Il cristianesimo sta per morire? Più vicino a noi, René Rémeond, in Cristianesimo in stato di accusa (2001) osservava: "Il cristianesimo soffre oggi di una sorta di discredito". Direi che in un certo senso questa situazione è dovuta alla natura stessa del rivestimento storico del messaggio di Gesù e della sua trasmissione nel tempo: il suo fondatore muore sulla croce; i primi apostoli non erano né pensatori né strateghi; la Chiesa ha conosciuto eresie, divisioni, scandali. È dunque inevitabile che un osservatore assennato si ponga la domanda sull'esistenza e sulla durata di un tale gruppo religioso. Quante volte si è sepolta la Chiesa: Nietzsche ha dichiarato che "il tempo delle religioni è finito; Dio è morto".
I totalitarismi dello scorso secolo non hanno detto altro. In Francia, cento anni fa, Jules Ferry, alla domanda di Jaurès sull'obiettivo profondo della sua politica, rispose: "Il mio fine? Organizzare l'umanità senza Dio". I sociologi e alcuni pensatori si compiacevano nel descrivere il cristianesimo di domani senza gioventù, diviso, minato dal ripiegamento identitario, che soccombeva sotto i colpi d'ariete delle nuove religioni accomodanti o di forme antiche e nuove d'incredulità e di ateismo.
È inoltre inevitabile constatare che il cuore del cristianesimo si è poco a poco spostato dal nord verso il sud. Alcune previsioni prospettano per l'anno 2025 - supponendo che il tasso delle conversioni non vari sostanzialmente - 2 miliardi 600 milioni di cristiani, di cui 663 milioni in Africa, 640 in America Latina, 555 in Europa, 460 in Asia (l'Europa è in terza posizione). Nel 2050 un quinto dei tre miliardi di cristiani sarà costituito da persone di colore non ispaniche.
Desta indubbiamente preoccupazione il fatto che così pochi giovani occidentali abbiano un contatto regolare con le Chiese: un gran numero di bambini cresce senza aver mai aperto una Bibbia, senza conoscere i riti cristiani, senza sapere che si può pregare Dio. Bisognerebbe menzionare anche la diminuzione del numero dei sacerdoti, il calo della pratica religiosa, la difficoltà di trasmettere la fede in un linguaggio più accessibile, ecc.
Eppure, il fenomeno religioso è lungi dall'essere scomparso. I cristiani non hanno rinunciato al loro compito. Questo cristianesimo di cui alcuni prevedevano la scomparsa - penso a quel coraggioso funzionario municipale di Valence che, dopo aver constatato, il 29 agosto 1799, il decesso "del detto Giannangelo Braschi, che esercitava la professione di Pontefice (Pio VI)", inviò il suo rapporto a Parigi, annunciando che il Papa appena morto era sicuramente l'ultimo della storia - sì, questo cristianesimo moribondo mostra una sorprendente vitalità e riserva molte sorprese. Una sera di ottobre del 1978 è stato l'arcivescovo di Cracovia, nel cuore dell'Europa centrale "marxistizzata" ad essere chiamato a occupare la cattedra di Pietro! E noi che viviamo a Roma o che abbiamo la possibilità di visitare le chiese locali, abbiamo della Chiesa una visione confortante: un'eucaristia celebrata in Africa, la visita di un seminario in America Latina, una chiesa di una città dell'Asia piena di fedeli per la messa quotidiana, non fanno affatto pensare a una Chiesa agonizzante. Senza parlare delle Giornate mondiali della gioventù o della celebrazione delle esequie di Giovanni Paolo II. Mi viene in mente una conferenza tenuta proprio qui da Harvey Cox, nel 1968. Questi aveva presentato la traduzione francese del suo libro La città secolare ed entusiasmato alcuni dei miei confratelli del Seminario francese predicendo la liberazione dell'uomo moderno da tutti gli arcaismi religiosi e dai rituali antiquati. Un anno dopo però pubblicava La Festa dei folli e alcuni anni dopo Il Ritorno del Sacro: vi riconosceva che un mondo senza preoccupazioni spirituali è irreale!
In verità il cristianesimo ha ancora e sempre molto da dire. La nostra parola è attesa anche se non viene presa come punto di riferimento. La nostra testimonianza ci interpella. È impressionante constatare che al centro di questo mondo nuovo che vediamo schiudersi, senza sapere cosa sarà, tutti - credenti e non credenti, ottimisti e pessimisti - siamo costretti a porci le domande fondamentali, siamo condannati a porci le domande essenziali. È la grazia del nostro tempo! In un articolo della rivista "Esprit", datato febbraio 1966, intitolato Prospective et utopie, Prévision économique et choix éthique, Paul Ricoeur osservava che l'uomo moderno aveva dinanzi quattro interrogativi, quelli dell'autonomia, del desiderio, del potere e del nonsenso: l'uomo di oggi non vuole rendere conto a nessuno, si rifiuta di essere creatura, è il trionfo dell'individualismo; nella misura in cui vengono soddisfatti tutti i suoi bisogni fondamentali (per i più fortunati!), entra nel mondo del capriccio e dell'arbitrario: "voglio tutto e lo voglio subito!", è la bramosia; il conflitto fra nazioni, l'aver solo diritti senza alcun dovere, fanno sì che il più arrogante, il più forte, imponga la sua legge; "di più, subito" sì, ma a quale fine? Si può vivere senza punti di riferimento né finalità? Tutto sembra diventato insignificante: il lavoro, la sessualità, lo svago. Qualsiasi sacerdote che riceve le confidenze dei suoi compagni in umanità conosce l'entità di questo "disincanto": si sognava di essere liberi e ci si risveglia schiavi...
Ecco un mondo che si organizza e si proietta senza Dio. Ebbene, con Karl Rahner diciamo che "l'uomo non esiste in quanto uomo se non quando, almeno come domanda che nega ed è negata, dice "Dio"" (Corso fondamentale sulla Fede).
Tuttavia, recentemente la situazione è cambiata: Dio è tornato nello spazio pubblico. La religione è riapparsa: libri, pubblicazioni, dibattiti televisivi pullulano. Il presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, nel formulare i suoi voti al Corpo diplomatico, qualche giorno fa, non ha esitato a dichiarare che il cambiamento climatico e il ritorno del religioso costituiscono "le due sfide" del mondo del ventunesimo secolo. Ha poi precisato: "La mia convinzione è che queste due sfide contribuiranno a strutturare la società internazionale del ventunesimo secolo, forse più profondamente delle ideologie nel ventesimo secolo". La precarietà del mondo, la violenza delle nostre società e l'islam, seconda religione dell'Occidente, spiegano in buona parte questo "ritorno" di Dio! Ma invece di rassicurare, le religioni fanno paura. Gli attentati dell'11 settembre 2001, il terrorismo islamico, i conflitti in Medio Oriente non hanno la loro origine nelle religioni. Alcuni però li alimentano con ingredienti di tipo religioso. La religione è tornata, sì, ma è percepita come un vettore di conflitti... Comunque sia, noi viviamo in un Occidente multireligioso e siamo costretti a interrogarci sulla nostra identità spirituale, sul contenuto della nostra fede, sulla qualità della nostra testimonianza. Chi siamo veramente noi cristiani? Chi sono gli altri? Porci simili domande è un'opportunità: la grazia di un "cristianesimo fragile" (Albert Rouet). Il pluralismo religioso non mi suscita angoscia. Ciò che mi preoccupa è sapere se i cristiani sono consapevoli del tesoro che rappresenta la loro fede, se i loro pastori offrono loro i mezzi adeguati perché siano in grado di rendere conto della speranza che è in loro (cfr Prima Lettera di Pietro 3, 15), se hanno il coraggio di affermarsi diversi.
Ebbene, gli articoli pubblicati da "La Croix" ci informano bene sugli sforzi compiuti dai cattolici, fedeli e pastori, affinché la Chiesa che noi siamo sia segno (sacramento) di Colui che "è venuto perché gli uomini abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" (Giovanni 10, 10). La preoccupazione della preghiera e della formazione teologica, gli sforzi compiuti in vista di una catechesi più incisiva, un senso della Chiesa più affinato, sono tutti elementi che portano a pensare che si stia riscoprendo il bisogno di una certa interiorità. D'altro canto, solo nel cristianesimo si trovano tanti volontari all'opera per alleviare le situazioni di disagio. Detto ciò, riprendendo un'espressione di una sociologa britannica (Grace Davie), ho l'impressione che i cristiani europei facciano parte di quei credenti che vivono alcuni aspetti della fede, al di fuori di qualsiasi legame con la loro Chiesa (believing without belonging: credere senza appartenere alla comunità).
Allora, come dobbiamo guardare al futuro? Con serenità, poiché è il nostro futuro. Certo, siamo una minoranza, ma una minoranza operante e i valori cristiani sottendono numerose "convinzioni" laiche: dignità della persona umana, libertà, solidarietà, rispetto della natura, tutti valori che hanno le proprie radici nell'humus cristiano.
Il cristianesimo è anche creativo: nuove comunità, scuole di fede, iniziative di ogni sorta per servire il prossimo. Non bisogna altresì dimenticare che la Chiesa cattolica è la sola istituzione capace di convocare e radunare tanti giovani. Ciò vorrà pur dire qualcosa!
Ieri pomeriggio, mentre terminavo la redazione di questo testo, un pensiero mi è venuto in mente e mi ha lasciato impietrito. Lo condivido semplicemente con voi: mi chiedo se la maggiore difficoltà con la quale il cristianesimo si scontra nei suoi sforzi di evangelizzazione e di trasmissione della fede non sia quella di dover constatare che la maggior parte dei nostri contemporanei non prova alcun bisogno di essere salvata. L'idea che ognuno di noi ha bisogno di un Salvatore è a loro del tutto estranea! Si può evitare Gesù Cristo?
Cosa fare? Divenire sempre più una Chiesa che prega, che celebra e che serve.
In un mondo multireligioso, sarebbe paradossale che i cristiani, che hanno come antenati nella fede Agostino, Benedetto, Domenico, Teresa d'Avila, Francesco di Sales, Elisabetta della Trinità - per citare solo alcune delle grandi personalità spirituali della tradizione cattolica - non fossero più capaci di entrare in un dialogo di amore con un Dio personale (poiché questo è la preghiera).
La liturgia, ben preparata e celebrata, è senza alcun dubbio la manifestazione più visibile della presenza di Dio al centro della società: la chiesa-edificio già di per sé ricorda che l'uomo non vive di solo pane. La vera città, diceva Giorgio La Pira è "quella in cui gli uomini hanno la loro casa e in cui Dio ha la sua casa". Un mondo che fosse solo il mondo del lavoro e della produzione e che non fosse anche il mondo della liturgia, sarebbe invivibile. Un'assemblea che celebra mostra che accoglie Cristo per comunicarlo.
Se noi cristiani dobbiamo esercitare un potere, è il potere del cuore. Nel duro mondo che abbiamo fabbricato, dobbiamo dimostrare che la persona umana non si riduce a ciò che mostra o produce, che la famiglia è l'ambito naturale in cui si impara ad amare, che semplici gesti (dire buongiorno, ascoltare, ringraziare) bastano spesso a ridare speranza a colui che si sente rifiutato o peggio ancora dimenticato.
Vorrei testimoniare questo potere del cuore, che è forse quello che dobbiamo in primo luogo esercitare. "La Casa della Carità" accoglie a Bertinoro dodici disabili gravi di cui si occupano un sacerdote di settanta anni, due religiose e cinquanta volontari delle parrocchie vicine. Ho incontrato Patrizia, vittima a trentasette anni di un aneurisma cerebrale devastante che l'ha resa prigioniera del suo corpo. Non può muoversi né parlare. Comunica grazie a movimenti delle palpebre e a un computer speciale che fa scorrere le lettere dell'alfabeto e le permette così di formare le parole. Quando mi sono avvicinato a lei, ho visto che la sua testa riposava su un foulard dove era stampata questa frase: "Io vivo perché qualcuno mi ama". Qualsiasi commento sarebbe superfluo. Ma io dico che è anche questo il cristianesimo in Italia e in Europa. Altri esempi potrebbero essere citati. Tanti uomini e tante donne, consacrati e non, si prodigano e trovano nella loro fede l'energia e la perseveranza affinché uno dei loro fratelli o delle loro sorelle possa credere che, nonostante tutto, la vita è bella, che ha una dignità, che la sua vita ha un senso. Tutto ciò non per un sentimento di commiserazione o per avere la coscienza a posto, ma a motivo di Gesù, che ha vinto il male e la morte per noi.
Noi abbiamo infine la responsabilità di annunciare il Vangelo della speranza. Con Benedetto XVI diciamo: "La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c'è la volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore" (Spes salvi, n. 5). Non possiamo dunque dubitare del domani.
Concludo dicendo che il cristianesimo ha un bel futuro in Occidente e altrove, poiché saprà, come ieri, "passare ai barbari", trovare la via del rinnovamento nella fedeltà alla tradizione, come ha sempre fatto. Lo farà come un fermento. A noi viene solamente chiesto di essere cristiani coerenti, persuasi che il nostro tempo sia il migliore, poiché Dio ci ha piantati in questo momento della storia affinché rechiamo frutti. La modernità non ci deve fare paura! Noi apparteniamo a questo mondo, in quanto cristiani, e vogliamo essere riconosciuti in quanto tali: "Siamo cittadini di questo mondo e non richiedenti asilo" (cardinale G. Danneels)!
(©L'Osservatore Romano - 10 febbraio 2008)
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