9 febbraio 2008

Lista docenti ebrei via web: il commento di Rondoni per "Avvenire"


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DAVIDE RONDONI

Davanti alla pubblica­zione on line di una lista di docenti indicati come ebrei e accusati di fare lobby accademica non basta, anche ora che il sito è oscurato, accusare questo gesto come uno dei tanti che la 'rete' rende più facili e incontrollabili. E non basta nemmeno fermarsi al giusto sdegno già espresso in queste ore da esponenti autorevoli delle Istituzioni. Occorre guardare diritto in faccia il problema: viviamo in una cultura che fa della differenza motivo di accusa. Agli ebrei tocca sempre di esser vittime tra le prime ogni volta che un pensiero totalitario cerca di imporsi. E ciò non accade a quel livello che potremmo chiamare 'popolare' ma sempre a quel livello dove entra in gioco la cultura. Non a caso è una lista nera di professori, e non una lista di idraulici.
Probabilmente gli estensori di tale obbrobrio non sono dei ragazzacci di qualche borgata. Del resto, l’altro grave episodio contro cui come scrittore insieme ad altri ho firmato un appello, è la recente richiesta di boicottaggio alla Fiera del Libro di Torino dedicata alla letteratura d’Israele. E in alcune università italiane, e non solo, si sono avuto episodi di spregevole censura di figure del mondo ebraico. È dunque un problema che riguarda innanzitutto la sfera della cultura prima ancora che la stupidaggine dei grossolani. Bisogna guardare negli occhi quale sia la cultura che favorisce l’insorgere di certi atti odiosi. Da un lato i motivi dell’odio affondano spesso in atteggiamenti culturali e politici precisi, segnati da ideologie e da interessi che si distinguono per un’avversione accanita a tutto ciò che viene da Israele. Ma, dall’altro, tali atteggiamenti trovano fertile terreno e rilancio in una cultura che chiamerei del totalitarismo dell’indifferenza. Non intendo solo la viltà di chi chiude gli occhi, ma anche e soprattutto quell’atteggiamento, altrimenti detto relativistico, che giudica tutto uguale, tutto pari, di uguale valore. In tale contesto che riduce le differenze a zero, e che astrattamente annulla le caratteristiche peculiari di ogni storia e di ogni cultura in nome di poche, vaghe e banalissime parole d’ordine, gli ebrei e coloro che esprimono una identità speciale vengono sentiti con fastidio. Con una insofferenza che può generare una reazione rabbiosa.
Ci sono identità che non sono riducibili ai luoghi comuni. Che non sono restringibili a quel che si vorrebbe. Sfuggono all’impero degli slogan che leggono la vita e la storia umana come minime variazioni sulla piattaforma data da poche banali caratteristiche. La storia è più ricca.
L’uomo non è un animale che si accontenta di mangiare, di aver potere, e di qualche invito al 'volemose bene'. Cos’avrebbero i 162 della lista nera che non si armonizza con il ritratto che ci impone l’impero del luogo comune e dell’indifferenza? Che cosa li marchia? Li segna un dato di appartenenza, li 'sfigura' agli occhi di chi li odia il fatto che appartengono a qualcosa che sfugge le categorie del pensiero politico o del potere. Agli ideologi dell’indifferentismo l’identità di un uomo e di un popolo da fastidio. In un tempo ombroso, oltre a vigilare contro odiosi gesti, occorre che tutti coloro che si costituiscono intorno a una identità siano radicali e liberi, disposti alla testimonianza di ciò che di buono e di grande segna in modo speciale la loro esistenza. Sia che si tratti di una eredità del sangue, come nel caso dei nostri fratelli maggiori ebrei, o una eredità di fede come nel caso di noi cristiani. Così che la differenza sia una festa dell’umano, un invito al vero a cui convertirsi sempre tutti, e non un motivo di odio.

© Copyright Avvenire, 9 febbraio 2008

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