8 febbraio 2008
La deriva della sperimentazione sugli embrioni umani: come si può generare un figlio con "riserva"?
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La deriva della sperimentazione sugli embrioni umani: come si può generare un figlio con "riserva"?
Promesse di salute distruzione di vite
di Adriano Pessina
Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica
dell'Università Cattolica del Sacro Cuore
La ricerca scientifica ha effettuato un nuovo esperimento sugli embrioni umani. In questo caso l'esperimento, condotto da ricercatori dell'Università di Newcastle, è consistito nella modifica del patrimonio genetico di alcuni embrioni umani ricorrendo all'uso di una tecnica che ha delle analogie con la clonazione, ma che, in fondo, è variazione della fecondazione eterologa. Al termine dell'esperimento, gli embrioni umani sono stati distrutti. Le tecniche di fecondazione extracorporea (che corrispondono a ciò che in Italia chiamiamo procreazione medicalmente assistita) di fatto si sono progressivamente trasformate in una metodica sperimentale di ricerca, affiancandosi all'iniziale progetto di lotta contro la sterilità.
Purtroppo, dobbiamo riconoscerlo, l'opinione pubblica si sta abituando ad accogliere la notizia di creazione, selezione e distruzione di embrioni umani con una certa indifferenza, sublimando questi fatti dentro le promesse di salute che inevitabilmente vengono formulate. Gli embrioni umani non sono visibili a occhio nudo, non hanno fattezze che coinvolgano emotivamente e sembra che soltanto quando rientrano nel progetto di una donna e di un uomo possano essere riconosciuti per quello che realmente sono, cioè dei figli.
I dibattiti, inoltre, tendono a spostare la questione sul piano generalissimo del valore delle scienze e sull'importanza delle ricerche per fornire terapie efficaci nei confronti delle malattie ereditarie. Ma così facendo si perde di vista la questione concreta, e cioè quale spazio ci sia per compiere atti terapeutici nei confronti degli esseri umani allo stadio embrionale.
Finora, infatti, non si è guarito nessuno, si è semplicemente eliminato chi, alla diagnosi pre-impianto, risultava malato. La terapia è ciò che guarisce o cura, o permette di convivere con alcune malattie riducendone gli effetti indesiderati. Ma quando ipotizziamo di mischiare il patrimonio genetico di un individuo nella speranza di eliminare delle malattie ereditarie stiamo superando la soglia di ciò che nell'ambito della clinica si definisce accanimento, siamo di fronte ad una programmazione e ingegnerizzazione della vita umana di cui non possiamo conoscere l'esito se non imponendola, in via sperimentale, al generato stesso.
Non si tratta, quindi, di discutere della natura della finalità delle scienze empiriche, o della tecnologia, ma di affrontare questo problema specifico: nel caso della vita embrionale, qual è lo spazio reale dell'attività terapeutica? Nessuno oggi è in grado di dire se si può realmente guarire qualcuno da malattie genetiche operando sul Dna. Nessuno sa dire quali conseguenze si possono avere a livello fisico, antropologico ed esistenziale intervenendo sulle fasi della vita embrionale dell'individuo. Sappiamo però che per ottenere anche soltanto dei risultati conoscitivi dobbiamo generare, modificare e distruggere un numero indeterminato di individui umani (perché questo è ciò che è un embrione) nelle fasi iniziale della loro vita. Ma nessuna finalità terapeutica può mettere in conto l'utilizzo di uomini come cavie da esperimento, perché nessun individuo, per nessun motivo può accampare un diritto di vita di morte su di un suo simile.
Tale è la questione da discutere: se stiamo irrimediabilmente abbassando la soglia di tutela del valore e della vita del singolo uomo e se stiamo tornando ad un'impostazione in cui il valore e la dignità del singolo sono strettamente commisurate alle fasi del suo sviluppo, così che esisterebbe una differenza morale tra eliminare un embrione, un feto, un neonato, un bambino, un adulto, un anziano.
Vogliamo davvero introdurre una scala di valutazione dell'umano e tornare ad antichi sistemi di classificazione e discriminazione fra gli uomini, e, nello stesso uomo, rispetto alle diverse fasi della sua esistenza? Di fatto lo stiamo facendo. Quando usiamo la nozione di persona secondo un'accezione morale (per cui è persona soltanto chi esercita le attività conoscitive e volitive) noi di fatto escludiamo dal novero delle persone tutti coloro che, per condizioni di vita, di salute, di sviluppo, non sono agenti morali. La nozione di persona umana, che per lungo tempo è servita per qualificare l'essere umano nella sua individuale irripetibilità, viene oggi usata per nuove forme di discriminazione, che coinvolgono in primo luogo gli esseri umani allo stadio embrionale.
Esiste poi una questione ancora più radicale, che dovremmo avere il coraggio di affrontare, e cioè il fatto che la procreazione extracorporea, al di là delle intenzioni e motivazioni psicologiche e cliniche, stravolge il significato antropologico della generazione umana in quanto sostituisce l'atto personale, affettivo, esistenziale, corporeo, da cui ha origine l'esistenza umana con una tecnica di laboratorio che consegna il generato all'anonima responsabilità di una procedura eseguita, sia pure con scrupolo, da lavoratori altamente specializzati.
L'embrione generato in provetta non è nell'unico luogo in cui dovrebbe essere custodito, nell'unico luogo adeguato alla sua condizione umana, e cioè in un grembo materno. Il linguaggio tecnico della riproduzione non riesce a rendere ragione del significato umano della generazione. Si parla di uteri, di spermatozoi, di ovociti, di mitocondri, di morule, di embrioni o blastociti, e si perde di vista che gli esseri umani dovrebbero venire al mondo dentro relazioni tra persone, nell'intreccio di corporeità personali unificate dalla capacità di ospitare la vita nascente.
Di fatto, una volta ridotta la generazione umana ad una tecnica di laboratorio, tutto, o quasi tutto, diventa possibile. È non c'è dubbio che si rischia di interpretare i desideri degli aspiranti genitori alla stregua dell'ordine di un committente che vuole un prodotto che sia all'altezza delle sue aspettative, dei suoi sacrifici, delle sue attese.
Le tecniche di procreazione extracorporea interessano un numero limitato di persone (e finora hanno anche una bassa percentuale di successo), ma alimentano l'idea che sia un diritto, anzi un dovere, avere figli sani e che per far questo tutto sia legittimo. Ma il dovere di non nuocere ai propri figli non sembra, paradossalmente, contemplare l'idea che per in primo luogo i figli non si possono selezionare e scartare in base alle loro caratteristiche di salute e che il dovere della tutela della salute non è altro che un aspetto del dovere della tutela della concreta vita umana nella sua insostituibile individualità.
Nel momento in cui possiamo generare esseri umani allo stadio embrionale fuori dal grembo materno siamo di fatto in grado di neutralizzare lo stesso concetto di genitorialità. Come poter riconoscere dei figli allo stadio embrionale laddove l'atto personale di un uomo e di una donna è sostituito da una tecnica che mette a disposizione della ricerca un numero indefinito di embrioni umani? Chi può sentirsi realmente responsabile di questa generazione, attuata in laboratorio, laddove lo sviluppo embrionale viene rapidamente interrotto, in modo che non si manifesti pienamente il fatto che abbiamo generato esseri umani, e non cose? Nessuna emozione ci può aiutare. Soltanto la disciplina della ragione.
E l'indifferenza con cui trattiamo gli embrioni umani, quasi fossero puro materiale biologico, è segno di quell'assenza di pensiero che Hanna Arendt ha sapientemente descritto con queste parole: "L'assenza di pensiero non si identifica con la stupidità; si può incontrarla in persone di intelligenza elevata e un cuore malvagio non ne costituisce la causa: è vero probabilmente il contrario: che la malvagità può essere causata dall'assenza di pensiero".
Soltanto per questa colpevole assenza di pensiero possiamo restare indifferenti di fronte al diffondersi e consolidarsi dell'idea che sia legittimo generare qualcuno con riserva, cioè riservandosi poi di farlo sviluppare o no, in base ad un controllo di qualità biologica, effettuato da tecnici di laboratorio.
Nello spazio pubblico di una società civile come possiamo accettare che venga riedito un arcaico diritto di vita e di morte sui propri figli, in nome della loro salute e qualità di vita? Anche in questo caso ci si rende conto di quanto sia fragile una democrazia costruita soltanto sulla logica dei diritti individuali. Infatti, le varie carte dei Diritti si trasformano in diritti di carta laddove non sono in grado di tutelare proprio coloro che, per le loro condizioni di sviluppo o di salute, fisica o mentale, non possono rivendicarli e farli rispettare.
Non è un caso che molti esperimenti sugli embrioni umani sono fatti in dispregio di quella Convenzione di Oviedo che il Consiglio di Europa aveva adottato nel 1997 ("per la protezione dei diritti dell'uomo e la dignità dell'essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina") e che afferma esplicitamente: "Quando la ricerca sugli embrioni in vitro è ammessa dalla legge, questa assicura una protezione adeguata all'embrione" e ancora "La costituzione di embrioni umani a fini di ricerca è vietata".
Nel conflitto tra gli interessi della ricerca scientifica e la tutela della vita embrionale umana non può bastare nessuna dichiarazione o legislazione: occorre che la libertà umana dei ricercatori eserciti una ben motivata astensione dall'intervenire sulla vita embrionale e questo è possibile soltanto se ci sottraiamo a quell'indifferenza che è alimentata da una colpevole assenza di pensiero.
(©L'Osservatore Romano - 8 febbraio 2008)
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